Da Stefano Rodotà a Ignazio Marino a Enzo Bianchi c’è una citazione papale che è ripetuta come un mantra.
Ricavata – dicono – da una lettera di Paolo VI del 1970.
La citazione è la seguente: “Il carattere sacro della vita è ciò che impedisce al medico di uccidere e che lo obbliga nello stesso tempo a dedicarsi con tutte le risorse della sua arte a lottare contro la morte. Questo non significa tuttavia obbligarlo a utilizzare tutte le tecniche di sopravvivenza che gli offre una scienza instancabilmente creatrice. In molti casi non sarebbe forse un’inutile tortura imporre la rianimazione vegetativa nella fase terminale di una malattia incurabile? In quel caso, il dovere del medico è piuttosto di impegnarsi ad alleviare la sofferenza, invece di voler prolungare il più a lungo possibile, con qualsiasi mezzo e in qualsiasi condizione, una vita che non è più pienamente umana e che va naturalmente verso il suo epilogo: l’ora ineluttabile e sacra dell’incontro dell’anima con il suo Creatore, attraverso un passaggio doloroso che la rende partecipe della passione di Cristo. Anche in questo il medico deve rispettare la vita”.
Enzo Bianchi, il fondatore e priore del monastero di Bose, ha coronato con questa citazione un suo articolo sul caso di Eluana Englaro su “La Stampa” del 15 febbraio 2009, attribuendola a Paolo VI in una lettera ai medici cattolici. Dopo di lui ha rilanciato la citazione il senatore Ignazio Marino su “l’Unità”. Ma, prima di entrambi, il più tenace nel metterla in campo più volte è stato Stefano Rodotà, a cominciare da un articolo su “la Repubblica” del 12 dicembre 2006 dedicato al caso di Piergiorgio Welby, nel quale asseriva trattarsi di “quel che nel 1970 Paolo VI scriveva al cardinale Villot, responsabile dei medici cattolici”.
In realtà, le cose non stanno propriamente così.
Quelle parole Paolo VI non le ha mai scritte né pronunciate. Sono invece dell’allora segretario di stato, il cardinale Jean Villot, in una lettera con la sua firma del 3 ottobre 1970, indirizzata al segretario generale della federazione internazionale delle associazioni mediche cattoliche, riunite a Washington per un congresso internazionale su “La protezione della vita”.
Il testo originale della lettera firmata da Villot, in francese, apparve su “L’Osservatore Romano” del 12-13 ottobre 1970 con il titolo: “Lettre pontificale au Congrès de la FIAMC”.
“La Civiltà Cattolica” pubblicò poco dopo parte della lettera in traduzione italiana presentandola come la “lettera che il cardinale segretario di stato, a nome del Santo Padre, ha inviato il 3 ottobre 1970 al segretario generale della FIAMC”. E in questo stesso modo essa fu ripresa in un documento del pontificio consiglio “Cor Unum” del 1981.
Il primo a cambiarne l’attribuzione fu, nel 1985, nel volume “Eutanasia. L’illusione della buona morte”, l’allora semplice sacerdote e teologo moralista Dionigi Tettamanzi, oggi cardinale e arcivescovo di Milano, presentando il testo come un “intervento di Paolo VI, in una lettera inviata tramite il card. Villot al segretario generale della FIAMC”.
L’anno dopo, 1986, monsignor Elio Sgreccia fece lo stesso. Nel volume “Bioetica”, introdusse la citazione come “un’ulteriore precisazione introdotta da Paolo VI con la lettera del cardinale Villot del 3 ottobre 1970 al segretario generale della FIAMC a proposito della riprovazione di quello che sarà definito l’accanimento terapeutico”.
Il seguito della metamorfosi l’hanno prodotto i fautori dell’eutanasia. E siamo ai giorni nostri. Invece che contro il solo accanimento terapeutico – al quale il magistero della Chiesa è risolutamente contrario – quelle parole sono ora giocate a sostegno della libera interruzione delle cure mediche e, peggio, della morte per fame e per sete, come per Eluana.
O anche sono giocate contro il magistero della Chiesa attuale, contrapponendo un papa buono e comprensivo, Paolo VI, al cattivo e insensibile Benedetto XVI.
(Fonte: Sandro Magister, Settimo cielo, 1 marzo 2009)
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