Molti dei commenti e delle reazioni alla lettera sofferta che Benedetto XVI ha inviato ai vescovi di tutto il mondo per spiegare il vero significato della revoca della scomunica ai lefebvriani e spegnere le polemiche suscitate dall’intervista negazionista di monsignor Williamson, hanno indugiato sulla solitudine del Papa, sui problemi del governo curiale, sull’opposizione da parte degli episcopati progressisti e sulle rigidezze dei tradizionalisti, sugli errori di comunicazione. E si sono concentrati infine sulle fughe di notizie «miserande», secondo la definizione del direttore de L’Osservatore Romano, che con un suo editoriale ha attirato l’attenzione mediatica proprio su questo argomento. Eppure il cuore dell’inconsueto messaggio papale – una lettera coraggiosa e umile allo stesso tempo, con la quale Benedetto ha preso su di sé le responsabilità della macchina curiale – ha rischiato e rischia di rimanere ancora sotto traccia. È vero: Ratzinger non nasconde, nelle sette pagine inviate ai «confratelli nel ministero episcopale», di essere stato profondamente colpito non dalle polemiche esterne, dalle strumentalizzazioni mediatiche del suo gesto di misericordia e riconciliazione nei confronti dei lefebvriani, quanto piuttosto dall’asprezza e dall’ostilità delle reazioni in campo cattolico, nella Chiesa. Vescovi e cardinali lo hanno attaccato, hanno ritenuto che il Pontefice volesse fare un’inversione di marcia rispetto al Concilio Vaticano II. Una «valanga di proteste, la cui amarezza rivelava ferite risalenti al di là del momento». Con il suo gesto solitario e sofferto, il Papa ha voluto, ancora una volta, richiamare tutti alla necessità di uno sguardo diverso, lo sguardo della fede: «Sempre e di nuovo dobbiamo imparare la priorità suprema: l’amore». Non per appiattire il dibattito e il confronto interno alla Chiesa, non per fare tabula rasa delle differenze e delle diversità, che da sempre hanno caratterizzato la «catholica», che si chiama così proprio perché include e non esclude, e al cui interno la stessa fede può essere vissuta secondo esperienze, modalità e sensibilità diversissime tra di loro. No, l’amarezza del Papa non è stata determinata dal fatto che siano stati espressi giudizi diversi sulla revoca della scomunica. La sofferenza che traspare dalle pagine della lettera è legata al fatto che in quei giudizi, in quelle critiche che gli hanno fatto ricordare la frase paolina sui cristiani che si mordono e divorano a vicenda, non c’era carità. Prevalevano le logiche delle fazioni contrapposte, che finiscono per trasformare anche la Chiesa in un talk show o in un congresso di partito, con tanto di correnti contrapposte e cordate che mirano soltanto alla gestione del potere.
Questo Papa anziano, che all’inizio del suo pontificato disse che il suo compito «è di far risplendere davanti agli uomini e alle donne di oggi la luce di Cristo: non la propria luce, ma quella di Cristo», chiede ancora una volta alla Chiesa e a tutti i suoi membri, come pure alla sua Curia, un cambiamento di sguardo e di mentalità. Quello sguardo che si può cogliere nel commento pubblicato su L’Osservatore Romano di oggi dal vescovo Rino Fisichella, dedicato al caso della bambina brasiliana stuprata dal patrigno, rimasta incinta di due gemelli e fatta abortire. Una storia tragica, che ha visto il vescovo di Recife salire alla ribalta delle cronache internazionali per aver immediatamente annunciato che i medici che hanno praticato l’aborto sono incorsi nella scomunica. «Prima di pensare alla scomunica – scrive Fisichella – era necessario e urgente salvaguardare la sua vita innocente e riportarla a un livello di umanità di cui noi uomini di Chiesa dovremmo essere esperti annunciatori e maestri».
Ecco, questo stesso sguardo di misericordia è quello che Benedetto XVI testimonia alla Chiesa. Pensare che il cuore del problema siano solo le poltrone della Segreteria di Stato – dove pure esistono innegabili disfunzioni - o lo studio di più efficaci strategie comunicative, o ancora le divisioni secondo logiche politiche tra conservatori e progressisti, significa, una volta di più, ridurre la profondità dell’insegnamento papale a logiche di potere mondano.
Il Papa non ha bisogno di interpreti autorizzati: comunica benissimo e dà il meglio di sé anche quando parla a braccio. In un momento della storia in cui Dio «sparisce dall’orizzonte degli uomini» c’è bisogno di riscoprire che alla Chiesa non si possono applicare le logiche aziendali, né può rimanere ripiegata su se stessa, concentrata sui suoi organigrammi. La Chiesa vive spalancata verso il mondo.
Proprio per questo, martedì prossimo, il vescovo di Roma parte per l’Africa, il continente dimenticato.
(Fonte: Andrea Tornielli, Il Giornale, 15 marzo 2009)
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