Niente moratoria per la vita umana embrionale. Vedremo in base alle motivazioni come hanno ragionato, i giudici costituzionali che hanno stravolto ieri la legge sulla fecondazione artificiale o medicalmente assistita varata dal Parlamento italiano nel 2004 e confermata dal fallimento del referendum abrogativo voluto dal fronte laicista nel 2005 (meno di un quarto degli elettori si convinse a votare “sì” all’abrogazione della legge 40).
Per ora sappiamo ciò che hanno deciso. La cura dell’embrione umano, il divieto di produrlo in numero esorbitante, di crioconservare gli avanzi della produzione per poi lasciarli deperire o distruggerli a scopo di ricerca, non è in cima ai pensieri dei componenti la suprema corte. Del bilanciamento tra la salute di una donna e i diritti esistenziali della vita da lei concepita in collaborazione tecnico-spirituale con un uomo, l’alta magistratura che si occupa della conformità delle leggi alla Costituzione sembrerebbe infischiarsene. Il ginecologo Carlo Flamigni ha detto che giustizia è fatta. In effetti, posto che gli embrioni umani siano qualcuno e non qualcosa, il mondo specchiato dell’umanitarismo amorale, contrario alla pena di morte, ora consentirà che in nome del presunto benessere femminile al miliardo di aborti di questi trent’anni si aggiungano un numero molto alto di vite umane embrionali giustiziate. Si chiama giustizia. Si chiama progresso. E’ probabile inoltre che la sovrapproduzione di embrioni consenta di estendere anche al nostro paese e ai suoi laboratori la deriva eugenetica in atto nel mondo, e che la razza venga selezionata, tipizzata secondo i nostri desideri, con tutti gli scarti e le soppressioni necessarie a un corretto funzionamento dell’ingegneria biogenetica del mondo nuovo.
Qui la sfera privata e l’autodeterminazione non c’entrano. Qui è in gioco la determinazione del destino altrui, della vita evocata e poi negata mediante atti tecnici di fabbricazione amorale della vita umana, esponendo quella sgradita a pratiche di manipolazione e maltrattamento e liquidazione dipendenti dal giudizio onnipotente della coscienza umana libera e della tecnoscienza che amoralmente la forma. Il legislatore aveva stabilito, nell’articolo 14 e commi seguenti stravolto per illegittimità costituzionale dalla Corte, che non si possono produrre embrioni a piacimento, per poi abbandonarli al loro destino; bisogna mettere un limite da uno a tre, deciso dalla donna mediante il consenso informato, e poi il quantum di vita creato (sia uno sia due sia tre) va impiantato perché sia realizzato il suo scopo intrinseco, la nascita di una vita umana già concepita. Non sembra un pensiero così irrazionale. Sempre che si sia d’accordo nel bilanciare i diritti della persona che concepisce con quelli di una persona concepita.
Rocco Buttiglione ha fatto un’osservazione interessante. Ha detto che a forza di sentenze di conformità costituzionale che vanno contro i sentimenti di una parte non indifferente del popolo italiano e dei cittadini di fede cattolica in particolare, si arriverà a estraniare dalla Costituzione un pezzo del paese, inducendolo a credere che la Carta non tuteli il criterio della difesa della vita umana in generale, in particolare dalla manipolazione a scopo eugenetico. Purtroppo però è questa la verità effettuale della cosa. Le Costituzioni e le Dichiarazioni sono state scritte prima che la vita diventasse un oggetto manipolabile in laboratorio, prima che si potessero fabbricare i bambini, scartarli per selezione o tipizzarli in ragione dei nostri bisogni veri o presunti. All’epoca si potevano fare ed erano stati fatti (e moralmente censurati) esperimenti alla dottor Mengele o comunque ispirati a una visione cosale della vita, ma non seriali e facili, alla portata di ogni famiglia. Non è un caso se abbiamo tentato una battaglia, quella sulla moratoria per l’aborto, al cui centro c’è l’idea di inserire nelle carte dei diritti, dalla Dichiarazione Onu del ’48 alla Carta italiana dello stesso anno, il comma pro vita che recita “dal concepimento alla morte naturale”. Forse bisognerebbe ripartire da lì, invece di fare chiacchiere.
(Fonte: Il Foglio, 2 aprile 2009)
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