«Egregio Presidente, tra due settimane abortirò». Inizia così, senza troppi giri di parole, la lettera di una giovane donna al Presidente Napolitano. L'autrice non è la classica immigrata senza una famiglia alle spalle e con il terrore di perdere il lavoro, non appartiene alla categoria delle disperate senza nessuno a cui chiedere una briciola di solidarietà. Nell'intervista, pubblicata ieri da Repubblica, appare una trentenne come tante, con un marito e un'occupazione, benché precaria e poco redditizia, e con una madre che sarebbe felice di diventare nonna e di aiutarla, se solo sapesse. Ma Sandra (il nome è quello, fittizio, che le ha assegnato la giornalista) non glielo vuole dire, perché lei e il marito hanno già deciso. 1300 euro al mese non bastano in due, figuriamoci in tre, e infatti, spiega Sandra, se un'assistente sociale dovesse selezionare dei genitori adottivi, non sceglierebbe mai una coppia con un lavoro precario e uno stipendio a malapena sufficiente. La lettera, più che una concreta richiesta d'aiuto, «è uno sfogo, un gesto di disperazione e di impotenza»; perché Sandra ha dei dubbi, trabocca di rabbia, vorrebbe e non vorrebbe, è un groviglio di sentimenti forti e contrastanti. Per suo figlio ha sognato un futuro più rassicurante, e anche per sé forse sogna di ottenere qualcosa di meglio, e non ha rinunciato a provarci, o almeno a sperarci. Che dire, di fronte a una lettera come questa, contraddittoria e aspra, retorica e insieme onesta, senza pudore e però anche impregnata di un dolore vero? A Sandra, dalle colonne di un giornale non si può dire nulla. Ci vorrebbe il calore di un discorso intimo, un'amica, o quella mamma che lei vuole escludere dalla decisione, forse proprio perché teme di essere convinta. Ci vorrebbe un incontro, magari con una delle volontarie dei Centri di Aiuto alla Vita; forse aiuterebbe persino rivedere la puntata di Sex and the City in cui Miranda, la più fredda e razionale tra le protagoniste, scappa dalla clinica in cui dovrebbe abortire, perché improvvisamente le è chiaro che quello è il «suo» bambino, la «sua» occasione di essere madre.
Ma la rabbia di Sandra chiede anche una concreta risposta politica. Perché la maternità in Italia è diventata un lusso privato, un desiderio che si paga tutto in prima persona, come se un figlio non fosse un bene prezioso per la società. Un Paese con un indice di natalità così basso è un Paese in sofferenza, che si accartoccia su se stesso; l'invecchiamento della popolazione vuol dire che ci sono in circolo meno idee nuove, meno gusto per il rischio e l'avventura, meno energie fresche, meno conoscenze all'avanguardia. Vuol dire ripiegamento, tendenza a privilegiare la rendita e la sicurezza, meno lavoro, meno consumi e meno investimenti. Vuol dire non avere uno sguardo proiettato sul futuro, sul nuovo, sulla vita che continua e va avanti. Il desiderio di maternità, tra le donne italiane, è rimasto quello di trent'anni fa: poi però, i figli non si fanno, perché non hai la casa, perché ti licenziano appena sanno che aspetti un bambino, perché quando raggiungi una certa sicurezza economica l'età giusta è passata. «In altri Paesi le coppie vengono aiutate, qui si parla tanto di baby bonus ma poi nei fatti non succede niente», si lamenta Sandra nell'intervista. Non so se il bonus per i nuovi nati promesso da Berlusconi sarebbe sufficiente ad aiutare Sandra a tenere il suo bambino, ma certo è necessario dare corpo alle speranze, e il sostegno alla maternità e alle famiglie è il primo obiettivo che il nuovo governo si dovrà porre.
(Eugenia Roccella, Il Giornale, 1 maggio 2008)
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