mercoledì 22 aprile 2009

“Report” di RaiTre, ovvero la libertà di disinformare

Informazione di parte, taroccata, gravemente scorretta o lacunosa… non trovo più aggettivi per dipingere l’altro programma televisivo sotto accusa dopo Anno Zero, e cioè Report, in onda, ovviamente, su RaiTre.
Ieri sera si parlava di scuola. Mi sono bastati alcuni minuti per capire tre cose: una persona che ha scelto per i suoi figli una scuola paritaria non statale, paga una retta a volte anche abbastanza consistente per garantire la sopravvivenza di quella scuola; in più paga le tasse come tutti, per sostenere anche la scuola statale; in più paga il canone Rai per sentirsi dire che sarebbe meglio se la scuola che ha scelto chiudesse i battenti.
La Gelmini, intervistata, dice che il ritorno al maestro unico non è stato solo motivato da bisogni di tagli alle spese, ma principalmente perché si crede che sia un modello educativo migliore per i ragazzini (e, fra l’altro, diffuso in tutta Europa, aggiungiamo noi)? La voce fuori campo commenta: finalmente abbiamo sentito la Gelmini ammettere che è una questione di cassa. La preoccupazione educativa è finita in un attimo nel cesso. Complimenti!
Piuttosto, incredibilmente (direi che è l’unica nota positiva dell’inchiesta) si rileva che il sistema dei moduli è stato varato nel ‘90 solo per mettere più gente a lavorare e che ha comportato aggravi di tutti i tipi per le scuole e per la pubblica finanza. Sprechi, insomma. Forse lo si ammette perchè è una verità così evidente che è impossibile da nascondere. Subito dopo, però, si fa una tale, voluta, confusione, una ricostruzione piuttosto approssimata dei fatti, per cui risulta che, ancora una volta, saranno le scuole “private” a potersi permettere un sistema di compresenze (due maestri insieme a lavorare coi ragazzi) che è molto efficace e che nella scuola statale invece sarà impraticabile. A riprova si porta una scuola privata riminese collegata con la Svizzera. Un’eccezione, insomma, per niente rappresentativa di quella che veramente è la scuola paritaria italiana.
Già, ancora una volta le private, vero bersaglio dell’inchiesta. E per cosa poi? Per quella miseria di 120 milioni di euro che il Governo ha restituito alle paritarie; una miseria, rispetto ai miliardi che si ciuccia la scuola statale. Una gocciolina nell’oceano, che (ma questo non lo si dice) si sta inoltre riducendo, visto che negli anni precedenti di milioni di euro ne erano stati stanziati 133. “Non era meglio tagliare anche lì?”, chiede l’ineffabile conduttrice. Ma si è tagliato anche lì! Questa, signori, è la disinformazione scientifica che va in onda su Tele Kabul International, al secolo RaiTre.
Il ragionamento va avanti. Non si è tagliato perché? Ovviamente per accontentare il Vaticano (immagini di porporati e sullo sfondo il cupolone)! Se ne deduce che gli sprechi e l’emorragia endemica della scuola italiana si risanerebbe chiudendo le scuole paritarie e togliendo di mezzo i professori di religione.
Certo, non si è avuto il piacere (almeno finché ho seguito l’inchiesta) di sentire cos’ha da dire il gestore di una scuola paritaria. Magari uno di quei maledettissimi preti o di quelle schifosissime suore che trescano all’ombra del Vaticano alle spalle del mai abbastanza laico Stato italiano. Peccato! Se, pluralisticamente, si fosse entrati in una scuola di quel tipo, si sarebbero sentite soprattutto delle storie interessanti. Di professori che insegnano, con passione e professionalità ed entusiasmo, spesso per pochi euro l’ora, alcuni per una forma di volontariato, altri con la speranza di tirare su un punteggio che li porterà ad insegnare alla scuola statale; di maestre che, siccome i soldi non ci sono e le famiglie non possono essere munte, tirano la cinghia ed aspettano mesi prima di prendere lo stipendio; di bilanci che non quadrano perché il contributo statale è già tanto basso e per giunta arriva dopo mesi e mesi, anzi, spesso l’anno scolastico successivo, per cui si regge l’anima (la scuola) coi denti e si fanno debiti, e si beccano multe per i ritardi nei pagamenti dei contributi Inps… Con il risultato che molte scuole paritarie non ce la fanno più e chiudono i battenti.
Si sarebbe potuto constatare come, nonostante ciò, la scuola paritaria offre un’ottima formazione, spesso innovativa, con risultati eccellenti per i propri studenti che poi si vanno ad inserire nel circuito statale. Si sarebbe potuto rilevare come la scuola paritaria in tutti questi anni ha svolto il meritorio ruolo di gavetta per molti insegnanti, che poi sono arrivati nella statale carichi di un’esperienza didattica che né le università, né i corsi del Ministero o dei provveditorati sono mai stati in grado di dare. Si sarebbe potuto ragionare in termini economici, snocciolando cifre precise che sono direttamente verificabili, se solo si volessero verificarle. Per cui, ad esempio, un bimbo alla scuola d’infanzia di una paritaria costa in media all’anno 2.600 euro (costo sostenuto per 2.000 euro dalle famiglie), mentre in una statale costa 6.600 euro (integralmente a carico dello Stato). Se ne sono accorti molti comuni, che preferiscono fare delle convenzioni, piuttosto che gestire in proprio un baraccone sempre in rosso.
Scusate, che senso ha tagliare ancora i miseri contributi a delle istituzioni che fanno già risparmiare allo Stato 4.000 euro a ragazzino (e stiamo solo parlando di scuola materna)? Come si può contrabbandare una simile cretinata per la panacea di tutti i mali?
Ecco, questa, precisamente è l’informazione drogata, ideologica, di parte, scarsamente pluralistica, politica. Garantita da un servizio pubblico che tutti paghiamo. Questa è la televisione che vuole la sinistra. Non sarà un caso se la stragrande maggioranza dei giornalisti che fanno carriera politica (vedi i Santoro, i Badaloni, le Gruber, i Marrazzo…) vengono da questa televisione.
Libertà di disinformazione. Questo è ciò che si vuole garantire in una certa Italia ipocrita, culturalmente lottizzata e monocolore, perfino sfacciata nell’uso che fa del servizio pubblico. Che schifo!
Ma cosa succede in realtà, purtroppo per noi tutti, nella scuola italiana? Ecco alcune considerazioni di Mons. Luigi Negri, Vescovo di San Marino-Montefeltro: «La realtà quotidiana è che nella scuola italiana si fa fatica a studiare e ad imparare perché l’insegnamento si è dequalificato. Abbiamo dimenticato che nella scuola italiana si può morire di spinello durante le ore di scuola; che durante gli intervalli si filmano scene di sesso che vengono poi inviate ormai a vari siti; che in certe scuole, non poche, durante l’intervallo gli insegnanti stanno tappati nell’aula professori per evitare violenze non solo verbali; che presidi e professori sono stati malmenati da genitori e studenti per protesta a certe valutazioni scolastiche; che più di una volta i carabinieri sono entrati in varie scuole ad arrestare studenti spacciatori di droga. Questa non è tutta la realtà, ovviamente, ma è un pezzo della realtà scolastica che dovrebbe interpellare tutti, soprattutto gli adulti, seriamente. La verità è che la scuola italiana è sempre stata al servizio non della Cultura, ma della ideologia dominante. Così abbiamo avuto la scuola unitaria e liberale e poi la scuola fascista e poi la scuola azionista e socialista. I cattolici sono stati così improvvidi che negli anni ’50 e ’60 hanno tirato fuori la strampalata teoria della scuola “neutra” che ha favorito la sua occupazione da parte delle più diverse ideologie rivoluzionarie e negative. Abbiamo avuto la scuola marxista e neo-marxista e radicaleggiante: e adesso abbiamo la scuola tecno-scientista».

(Fonte: La Cittadella, 20 aprile 2009)

Carlo Sgorlon: «Francamente esisto». Nonostante la cultura egemone di sinistra.

Dopo le polemiche sul nuovo libro “La penna d’oro”, la replica di Carlo Sgorlon. Probabilmente è il maggior romanziere che l’Italia annoveri oggi, ma per la cultura egemone è come se non ci fosse. Solo perché non è allineato. Ha scritto una lettera a “Il Domenicale”: eccola.
«La penna d’oro è insolitamente un libro autobiografico, scritto soprattutto per fornire agli studenti (che spesso mi chiedono, notizie, dati biografici, nozioni di poetica) le circostanze e le ragioni per cui nacquero i miei libri più significanti.
Anche per questo ho usato un linguaggio al massimo semplice e immediato.
Il volume prende il nome da un episodio piuttosto simbolico e misterioso che mi è accaduto. La mia madrina di battesimo, Cristina Moretti, amicissima di mia madre, e moglie di un capitano di mare di origine istriana, mi regalò per la circostanza una bellissima stilografica d’oro. La fece acquistare da suo marito negli Stati Uniti.
Naturalmente non veniva mai l’ora di usarla, quella penna; mia madre mi distoglieva dal farlo con le solite paure: “È troppo bella. Te la rubano, oppure la perdi”. Ma quando il momento di usarla venne davvero, cioè quando cominciai a diventare scrittore, la penna non si trovò più. Eppure la mia famiglia non ebbe mai i ladri in casa. Neppure oggi ho la minima idea di dove sia finito quell’oggetto, orgoglio della mia infanzia, adolescenza e gioventù.
Momento importante del libro è anche quello in cui espongo la nascita e lo sviluppo del mio sentimento sacrale per la natura, perché da bambino e da ragazzo vissi in campagna, con i nonni materni. Il mio rigoroso ecologismo, la mia convinzione che l’umanità, per sopravvivere, dovrà abbandonare il consumismo materialista di oggi, e tornare alla parsimonia delle civiltà contadine e a un sentimento di sacralità nei confronti della natura e della vita, nacquero proprio in quegli anni.
Si formò allora in me anche la convinzione che l’idea di progresso doveva cambiare radicalmente. Non poteva più essere quella di socialisti e positivisti, ma quella che aveva come fine la salvezza della natura e quindi delle specie viventi. È una delle ragioni per cui la mia filosofia di fondo non è mai quella dei radicali socialisti. Essa nasce anche dalla sensazione di incompletezza dell’idea di un uomo fondata sullo storicismo razionalista e sul materialismo storico e dialettico. Io non rifiuto il razionalismo; però non posso dimenticare mai che esso è soltanto un versante della mente umana, generata dai neuroni e dalle sinapsi del cervello, che ci è stato dato dalla natura.
Il razionalismo dunque non è un assoluto, ma soltanto un aspetto della mente umana. Neanche il materialismo, che si basa sulla convinzione che tutto ciò che esiste è materia, ed ha massa e spaziosità, è accettabile. Nella realtà sono veramente materiali soltanto le particelle subatomiche, come gli elettroni, i fotoni, i fermioni, i protoni, i bosoni, i gluoni, i quark, e così via. Ciò significa distruggere la base stessa su cui si fonda la metafisica materialistica. Per metafisica oggi s’intende un pensiero che riguardi la totalità dell’Essere.
Quindi neppure il materialismo, che oggi coinvolge nelle forme teoriche e pratiche la quasi totalità degli uomini, è un assoluto. Chi legge i fisici moderni ne ricava affermazioni assolutamente sorprendenti, che ammettono tra l’altro anche forme di spiritualismo. Apprende che la materia è quasi vuota, che è l’apparenza del reale, adatta ai nostri sensi; è ciò che le religioni chiamano “il velo di Maya”, ossia l’inganno. Oggi certe forme di spiritualismo le troviamo in intere scuole di fisici, per esempio quelle di Princeton e di Pasadena. Lo storicismo rozzo, il materialismo storico e dialettico è stato messo in crisi dallo spiritualismo fondato sulla nuova fisica.
La revisione di ciò che si credeva di sapere dell’Essere conduce a considerare il cosmo un enorme mistero, e ad alimentare un moderno sentimento di sacralità. Tutto ciò pone i fondamenti di una nuova cultura, che si basa su un nuovo spiritualismo, costruito con argomenti scientifici. Ma la cultura egemone, materialistica e socialista, nega che essa esista, e quindi non riconosce e non accredita una cultura che si interessi di miti, di archetipi, di etica, di neospiritualismo, di leggende, di misteri, di metafisica, ossia, come ho detto, di idee che riguardano la totalità del cosmo.
Per la sinistra esiste soltanto la cultura radical socialista. Altre non ve ne sono. Se esistono, sono culture sciamanesche, come affermava tempo fa sul “Corriere” Asor Rosa, a proposito di Citati e di Ceronetti. Massimo Cacciari, sul “Gazzettino” di pochi giorni orsono, sosteneva che affermare che esiste una cultura egemone di sinistra “era una barzelletta”.
Per non parlare soltanto di sensazioni vaghe, dirò alcune cose che sono capitate a me in cinquanta anni di carriera letteraria. Per i giornali di sinistra, tipo “Repubblica”, “Espresso”, “Manifesto” e così via io non esisto. Nemmeno quando il libro che stiamo presentando suscitò un piccolo caso letterario, parlando della “letteratura egemone”. Come dire che i giornali e i settimanali nominati mi hanno dato silenziosamente ragione. Infatti non si parla di ciò che non esiste e non mette conto di sciupare spazio.
Un premio letterario toscano mi fu assegnato (telefonicamente) e poi ritirato in fretta perché l’assessore alla Cultura non volle che un riconoscimento finisse nelle mani di un reazionario.
Qualcosa di simile, ma in modo meno vistoso, e forse più subdolo, mi accadde almeno in altri tre premi, dove fui prima votato e poi accantonato. Alla televisione di stato si parla (raramente) anche di libri. Il mio nome fu fatto da quelle televisioni per l’ultima volta nel 1985, quando mi fu assegnato il premio Strega. Poi nulla. Nel frattempo di certi autori di sinistra si è parlato almeno una trentina di volte. Per me in questi casi c’è sempre il silenzio, l’esclusione, la dimenticanza. Queste cose, gentile professor Cacciari, non sono una barzelletta. Sono accadute a me. Il fatto di aver venduto, con i tascabili, oltre tre milioni di libri e di essere stato recensito dai maggiori critici italiani non è servito affatto a modificare le cose.
Per contro io avrò parlato di quattrocento o cinquecento libri senza neppure essere sfiorato dalla tentazione di fare discriminazioni politiche. Non ho mai pensato, io, che una cultura radical-socialista non esista più, si sia dissolta, benché oggi la crisi del materialismo e la tematica complessa dell’ecologismo abbiano fatto invecchiare di colpo quella superba ideologia. Carlo Sgorlon».

(Fonte: Il Domenicale, 21 aprile 2009)

Non si può intimidire il papa: il rammarico del Vaticano per la protesta del parlamento belga

Rammarico. Lo esprime il Vaticano dopo due settimane dalla decisione del parlamento belga di «condannare le dichiarazioni inaccettabili del Papa in occasione del suo viaggio in Africa e di protestare ufficialmente presso la Santa Sede». E' una nota della Segreteria di Stato a tornare sulle polemiche che avevano suscitato le parole espresse dal Pontefice in volo verso il continente africano riguardo all'emergenza Hiv/Aids in Africa e al ruolo del preservativo come metodo di lotta contro l'epidemia.
Una nota della Segreteria di Stato ha spiegato che “l’ambasciatore del Regno del Belgio dietro istruzioni del ministro degli Affari Esteri, ha fatto parte al segretario per i rapporti con gli Stati della Risoluzione con cui la Camera dei Rappresentanti del proprio Paese ha chiesto al governo belga di «condannare le dichiarazioni inaccettabili del Papa in occasione del suo viaggio in Africa e di protestare ufficialmente presso la Santa Sede». L’incontro si è svolto il 15 aprile”. La segretaria di Stato, si legge nel comunicato, “prende atto con rammarico di tale passo, inconsueto nelle relazioni diplomatiche tra la Santa Sede e il Regno del Belgio. Deplora che una assemblea parlamentare abbia creduto opportuno di criticare il Santo Padre, sulla base di un estratto d’intervista troncato e isolato dal contesto, che è stato usato da alcuni gruppi con un chiaro intento intimidatorio, quasi a dissuadere il Papa dall’esprimersi in merito ad alcuni temi, la cui rilevanza morale è ovvia, e di insegnare la dottrina della Chiesa”.
Benedetto XVI e il vaticano dunque non si lasciano intimidire dagli assalti mediatici e politci. Anche se la crisi mediatica diventa diplomatica. Il 3 aprile il parlamento del Belgio, dopo 4 ore di dibattito e la modifica da “affermazioni pericolose e irresponsabili” a “ inaccettabili”, aveva approvato a larga maggioranza una risoluzione di protesta. Un evento davvero “inconsueto” nelle relazioni diplomatiche tra Vaticano e Regno del Belgio. Il paese dove il cattolicissimo re Baldovino si dimise per un giorno per protestare contro la liberalizzazione dell’aborto, ora ha leggi su eutanasia e matrimoni gay. E, a fine marzo, qualche parlamentare aveva chiesto addirittura di richiamare l’ ambasciatore in Vaticano. “ Stupore” del portavoce Padre Federico Lombardi che, dalla Radio Vaticana, si appellava ai diritti democratici di “esprimere le proprie posizioni e linee di azione su argomenti che hanno evidente attinenza con la visione della persona umana” e insinuava il dubbio che le parole del papa fossero giudicate “attraverso il filtro non obiettivo ed equilibrato di echi nei media occidentali.” La nota vaticana ricorda che “mentre, in alcuni Paesi d’Europa, si scatenava una campagna mediatica senza precedenti sul valore preponderante, per non dire esclusivo, del profilattico nella lotta contro l’Aids” le parole del papa “sono state capite e apprezzate, in particolare dagli africani e dai veri amici dell’Africa, nonché da alcuni membri della comunità scientifica.” L’Osservatore Romano oggi presenta una rassegna stampa di chi, in fondo, è sulla linea del papa, da “ Le Monde” fino a” The Guardian”, passando per “ Lancet” e “ Science”. Medici e ricercatori che riportano dati sulla diffusione dell’Aids in Africa e che portano alla conclusione che “ The pope may be right”, come titolava “ The Washington post” del 29 marzo. “Sono state poche le voci che hanno cercato di andare oltre il facile pregiudizio nella polemica sollevata dai mezzi di comunicazione — soprattutto occidentali — per le parole di Benedetto XVI circa la lotta all’aids nel continente africano” ma “non deve essere stato semplice porsi al di fuori del coro, assediati, come si è stati, da una massiccia campagna mediatica che ha travisato le frasi del Papa, proponendo in maniera aggressiva un messaggio distorto”, si legge sul foglio vaticano. E “i presuli della Conferenza episcopale di Angola e São Tomé (Ceast) hanno lamentato il fatto che i media — soprattutto occidentali — abbiano praticamente ‘dimenticato la visita del Papa’, concentrandosi sulla sterile polemica da essi stessi sollevata e ‘cancellando il modo estremamente positivo in cui l’avvenimento si è svolto’ Oggi intanto su “Le Figaro” appare una lettera del ministro degli interni Michele Alliot-Marie. Della posizione del Papa sull'Aids, scrive, e' stata data una "presentazione talvolta eccessivamente semplicistica e affrettata" e "il discorso di Benedetto XVI merita di essere riletto nella sua complessita'”. Il dibattito scientifico e politico è in continua evoluzione, e se le relazioni politiche tra Santa Sede e Belgio sembrano in crisi, e il governo non cambia posizione, ci sono però i vescovi africani a sostenere il papa. Il 27 marzo avevano affermato che “gli africani sono capaci di pensare con la propria testa sia per i problemi che li riguardano, sia per quelli che riguardano tutta l'umanità.” Una denuncia di un “neocolonialismo” di chi si ostina, scrivevano, “ a pensare per noi, a parlare per noi, a fare al posto nostro, certamente perché non siamo ritenuti in grado di farlo da soli.” Il Vaticano è convinto che senza la “dimensione morale ed educativa la battaglia contro l’Aids non sarà vinta.” All’Africa dicono i vescovi belgi “serve una riflessione serena su tutti i mezzi da mettere in opera per frenare l’epidemia dell’Aids”. E la decisione del parlamento non tiene conto di ciò che Benedetto XVI ha realmente voluto esprimere:“senza una educazione alla responsabilità sessuale, gli altri mezzi di prevenzione resteranno deficitari”.

(Fonte: Korazym.org, 17 aprile 2009)

Vauro a casa, e Santoro ripari. Considerazioni postume.

L’imposizione a Michele Santoro di una “puntata riparatrice” del suo contenitore televisivo al curaro, è quanto di meglio si poteva pensare per dare una bella lezione a chi fa un’informazione scorretta utilizzando il servizio pubblico. Santoro, probabilmente, avrebbe preferito una clamorosa sospensione di Anno Zero, così da contrabbandarsi ancora una volta come la vittima immacolata di una persecuzione, l’onesto paladino della libertà di pensiero e d’informazione.
Il provvedimento preso, invece, è un vero e proprio giudizio sul suo modo di impostare e di condurre una trasmissione e quindi di lavorare. Gli si è detto: “Tranquillo, nessuno ti toglie il giocattolino, ma tu devi ancora imparare ad utilizzarlo. Intanto chiedi scusa a chi hai fatto del male”. Perché proprio di chiedere scusa si tratta. Lo scivolone è stato grosso.
Che ci faceva Vauro in una puntata in cui si parlava di una tragedia come il terremoto? Si può scherzare su queste cose? La prima, grave stupidaggine di Santoro è stata quella di non aver lasciato a casa il vignettista. E’ colpa di Santoro, esclusivamente di Santoro. Vauro, poi, ci ha messo del suo. Io non ho visto le vignette incriminate, ma ne ho letto la descrizione. E del resto dappertutto si è alzato un grido d’indignazione.
Entrambi i personaggi hanno perso per strada il senso della misura, della realtà e della pietà. Non è la prima volta. Lo abbiamo già detto e ripeterlo diventa anche stucchevole. Anche in questa ennesima, pessima performance di Santoro, la faziosità e l’unilateralità dell’informazione l’hanno fatta da padrone, specie nei collegamenti esterni, che sono il luogo deputato della pura strumentalizzazione.
Due considerazioni. Nessuno osi parlare di censura. Qui si tratta di far rispettare non solo le regole del servizio pubblico a chi evidentemente se ne fa beffe, ma anche l’educazione. La censura è odiosa. Ma è altrettanto odioso l’uso che Santoro fa del suo potere televisivo. Non si può rispondere “Se non ti piace gira canale”, perché quella TV è anche mia, anch’io la sostengo col canone che pago. Non è una TV privata, commerciale. La collettività ha il diritto di pretendere che la TV pubblica sia pluralistica. E che questo pluralismo non sia il risultato di una media delle varie trasmissioni, ma sia la stoffa, lo stile di ogni singola trasmissione.
Seconda considerazione: basta, veramente basta con la TV dell’odio e del tutto-fa-schifo, tutto-va-male. Stiamo ancora contando i danni di una tragedia nazionale che si poteva forse prevenire in parte, ma non evitare in assoluto. Ci sono responsabilità da accertare e sacrosante indagini da svolgere. Abbiamo assistito a tutto lo squallido repertorio che gli uomini riescono a mettere in campo, a cominciare dallo sfruttamento della notizia da parte della stampa, fino ai tristi casi di sciacallaggio. Ma c’è stata anche una reazione, una solidarietà ed un orgoglio nazionale ammirevoli, fantastici. Efficacia degli interventi; rapidità delle soluzioni; capacità nel coordinare le forze sul campo; mobilitazione di professionisti e volontari; tempestività dei provvedimenti da parte del Governo.
Accendere i riflettori solo sulle difficoltà e le magagne, tacendo tutto ciò che di bene e di efficace è stato fatto, è anche questo vero e proprio sciacallaggio. Imperdonabile, ingiustificabile. Per questo è bene che Santoro torni davanti alle telecamere a chiedere scusa con un gesto riparatore. Sicuramente questa volta ci guadagnerà anche in termini di indici di ascolto.

(Fonte: Gianluca Zappa, La Cittadella, 16 aprile 2009)

Blair “sposa” i gay e fa lezione al Papa: «È troppo anziano»

Ecco una notizia che farà contento soprattutto Franco Grillini e tutti i soci dell’arcigay.
A perorare la causa dell’omosessualità si è messo niente meno che l’ex premier britannico Tony Blair, che tra una conferenza milionaria e un’altra (il compenso di Blair oratore è di 7.300 euro al minuto) ha trovato il tempo di rilasciare un’intervista al magazine gay “Attitude” in cui “consiglia” la Chiesa cattolica di essere più tollerante nei confronti dei diversi. «Il Vaticano - ha detto Blair - dovrebbe ripensare la propria posizione nei confronti degli omosessuali e abbandonare le posizioni trincerate, mentre il mondo - e con esso i fedeli stessi - si evolve». Il problema - secondo Blair - è che il Papa (82 anni) è troppo vecchio.
Quando gli è stato chiesto un commento sulla definizione di omosessualità elaborata da Benedetto XVI nel 1986 (“una tendenza intrinseca al male morale”), l'ex premier britannico ha risposto: «Su questo punto c'è un'enorme differenza generazionale. Abbiamo bisogno di un’attitudine mentale per cui i ripensamenti e il concetto di evoluzione delle disposizioni individuali facciano parte dell’approccio alla fede religiosa». Ma la gente di chiesa normale - è convinto Blair - la pensa come lui: «Se si va in una qualunque chiesa la domenica e si fa un sondaggio si resterà sorpresi nel vedere quante persone mostrano una mentalità liberale. E se si chiede alle congregazioni, vedrete che i fedeli non basano la loro fede su questo tipo di atteggiamenti arroccati».
La domanda è: perché tanta solerzia a favore di una causa che non gli è mai stata propria? Forse si aspetta di essere chiamato a parlare a un dibattito sull’omosessualità e ricevere un altro compenso da capogiro dopo i 200mila euro guadagnati al convegno «Il leader come costruttore di nazioni durante la globalizzazione» nelle Filippine. O forse ancora ha maturato dentro di sé un’altra conversione (due anni fa, quando ha lasciato la guida del Regno Unito, ha abbandonato la Chiesa anglicana per diventare cattolico) e si sta preparando il terreno per poter fare la comunione anche dopo l’outing. Ma l’ex premier non si è limitato a consigliare alla Chiesa Romana l’apertura ai gay. È andato ben oltre e ha colto l’occasione anche per suggerire un ammodernamento a tutto tondo. Come lui fece con il partito laburista, a cui diede una svolta a dir poco liberale, anche la Chiesa dovrebbe “ri-organizzarsi”.
«Le organizzazioni religiose hanno gli stessi dilemmi dei partiti politici e quando si trovano di fronte a circostanze che cambiano hanno due possibilità. La prima è ancorarsi sulle proprie posizioni e non uscire dagli schemi per non rischiare di perdere il proprio zoccolo duro. La seconda è accettare che il mondo stia cambiando e decidere di mettersi alla guida del cambiamento». Forse, però, a volte i conti bisogna farli. La Chiesa cattolica è un’istituzione che resiste da quasi due millenni e ha oltre un miliardo di fedeli in tutto il mondo. Il Labour Party ha soltanto un secolo di storia e un numero di fedeli che si riduce sempre di più: tanto che alle amministrative dell’anno scorso è diventato il terzo partito del Paese.

(Fonte: Libero, 9 aprile 2009)

sabato 11 aprile 2009

Annozero: Santoro ha infangato gli angeli dei soccorsi

Caro Santoro, anzi caro onorevole, visto che m’ha chiesto di chiamarla così, so bene che quando si è invitati nei salotti altrui non è buona educazione raccontare al mondo quel che ci si è detti. Ma siccome quel salotto era in diretta su Raidue in prima serata, davanti a svariati milioni di telespettatori, mi permetto di infrangere le regole. Non me ne vorrà. In fondo lei di regole infrante è un maestro. E, in effetti, dopo aver fatto a pezzi quelle della par condicio e del buon senso, l’altra sera ha definitivamente massacrato anche quelle del buon gusto e della civiltà. Missione compiuta, olé.
Il suo ultimo Annozero, mi permetta, è stato uno spettacolo squallido, un atto di sciacallaggio ributtante, che non mette più la polemica sull’asse di ciò che è di sinistra o non di sinistra, ma di ciò che è civile e ciò che non lo è più. E mi chiedo se sia possibile che lei e i suoi sottopanza siate così accecati dall’odio e dalla faziosità da perdere non dico l’equilibrio politico, che quello l’avete già perso da tempo, ma anche il senso di umanità. E che non vi rendiate conto che tutto questo vi porta lontani dal Paese reale, dal sentimento diffuso di commozione e solidarietà, dall’Italia che si unisce di fronte alla sofferenza, per una volta provando a ragionare non per schemi di partito, ma secondo bisogni, urgenze e necessità. Provi a togliersi per una volta la giacchetta da europarlamentare, caro onorevole Santoro, provi a togliersi per una volta i paraocchi del katanga in servizio permanente effettivo. Vedrà che in Abruzzo c’è un’umanità dolente e dignitosa, lacerata e orgogliosa, che non chiede bandiere di partito né polemichette pretestuose. Chiede risposte concrete. Responsabilità. E serietà. Per una volta, proviamoci, anche noi, che abbiamo per le mani il bene prezioso dell’informazione. Proviamoci a togliere la maglietta di parte e a guardare la tragedia senza pensare a quel che ne potremmo guadagnare in termini di marchette politiche. Proviamo a essere seri. E lei che è un gran professionista lo sa: attaccare la Protezione civile per il ritardo nella consegna di una bottiglietta d’acqua (una! Su 27mila sfollati!), mentre ci sono le bare dei morti ancora aperte e i soccorritori che rischiano la vita fra le macerie, non è serio. Anzi, sarebbe perfino ridicolo, se non fosse tragico.
Tragico per le vittime, innanzitutto. Ma tragico anche per lei, per la sua squadra avvilita nei bassifondi della polemica, per la sua professionalità ridotta a zerbino in nome dell’ideologia, per la sua umanità schiacciata sotto il peso dell’odio politico. In Abruzzo i soccorsi hanno funzionato. Lo sanno tutti, lo dicono tutti. I volontari sono stati eroici, hanno salvato decine di vite umane. Le tendopoli sono state operative in tempi record. Non c’è stato caos, non c’è stata disorganizzazione. Tutti gli osservatori, italiani e stranieri, di destra e di sinistra, hanno potuto notare che per la prima volta sul luogo della tragedia si è sentita forte e tempestiva la presenza dello Stato. Chissà perché gli unici che non se ne sono accorti sono stati i suoi inviati, poveri kamikaze spediti sul posto a cercare disperatamente di trasformare una efficiente opera di soccorso nella Caporetto di Bertolaso.
Per altro, mi lasci dire, caro onorevole, evidentemente lei non è più il maestro di un tempo, l’esperienza a Bruxelles l’ha rammollita o gli allievi sono scarsi: ammetterà che hanno lavorato proprio male. La tesi si poteva argomentare in modo assai migliore, di voci contro, in quella situazione, se ne potevano raccogliere un’infinità. E loro, invece, gli sciagurati di Caporetto, che cosa le hanno portato in pasto? Una bottiglietta d’acqua consegnata in ritardo, lo sfogo di un medico chiaramente sfinito e poco altro. A guardare bene, tutte interviste forzate, con domande tranello, risposte indotte e montaggi con tagli spericolati. Poca roba, lo sa anche lei, chissà come li avrà sgridati nella solita riunione che fate il giorno dopo per esaminare, minuto per minuto, gli errori commessi in trasmissione. E che dirà allora di quei collegamenti con Ruotolo? Erano così noiosi... Ci voleva tanto a trovare qualcuno che dicesse «Bertolaso è un incapace» con efficace sintesi televisiva? Evidentemente nemmeno Ruotolo è più quello di una volta...
Su, onorevole Santoro, sia sincero: in fondo portare in tv qualcuno che si lamenta contro la Protezione civile in mezzo a 27mila sfollati non è mica una missione complicata. Se vuole gliene troviamo altrettanti in cinque minuti anche qui nel centro di Milano, dove pure la gente non ha patito sulla sua pelle il terremoto. La scarsità delle testimonianze da voi raccolte è una conferma (se ce ne fosse bisogno) che la Protezione civile ha funzionato bene. Ma mi resta un dubbio: possibile che non abbiate incontrato nemmeno uno che ringraziava i soccorritori? Possibile che non vi sia venuto in mente di intervistare così, en passant, anche uno della Protezione civile? Non li avete trovati? Ruotolo è così bollito?
Lei dice bene che non si può sventolare l’eroismo dei volontari come pretesto per non parlare dei problemi. Siamo d’accordo. Ma non si possono nemmeno sventolare i morti come pretesto per dire fregnacce. Voi, invece, l’avete fatto. Scientificamente. Per tutta la trasmissione. A cominciare da Ruotolo che esordisce lasciando microfono libero a un uomo esasperato che insulta le divise. E poi la bottiglietta d’acqua e altri lamenti. E poi la piccola teoria degli schizzi di fango. E poi la presidente della Provincia che se la prende con le istituzioni (e lei che cos’è signora, mi scusi?). E poi il suo sarcasmo, dottor Santoro, fra Kgb, caschi e altre cose che voleva mettersi in testa (a mettersi un po’ di buon senso, ci ha mai pensato?). E, infine, soprattutto la ciliegina sulla monnezza, cioè le spaventose vignette di Vauro, dove si ironizzava sulla cubatura dei cimiteri, l’ampliamento edilizio delle bare e, ancora, la ridicolaggine dei soccorritori.
Lasciamo da parte i malinconici dettagli: Travaglio che legge (per altro con inesattezze) verbali da questurino di provincia e il magistrato candidato De Magistris, investito ufficialmente del ruolo di censore dei furbetti (avete capito bene: il furbetto dei Valori eletto a simbolo di censore dei furbetti, che è un po’ come fare tenere ad Adriano un corso contro l’alcolismo). Lasciamo da parte i malinconici dettagli, non restano che le fregnacce. E che sono fregnacce lo sa anche lei, caro onorevole Santoro. Per tutta la settimana, nei colloqui con i suoi collaboratori, mi è stato detto che trovava sciocco insistere sulla prevedibilità dei terremoti, sulla cassandra Giuliani, sulla questione dell’emergenza, perché il vero problema è quello edilizio. Sacrosanto. Il vero problema è che in Italia ci sono 7 milioni di case a rischio, di cui 80mila sono edifici pubblici. Il vero problema è quell’ospedale dell’Aquila inaugurato nel 2000, dopo vent’anni di lavori, e che ora è inagibile. Il vero problema è il decreto del 2004 che prevedeva costruzioni antisismiche e che è sempre stato rinviato. Il vero problema è che occorre una grande opera di rottamazione edilizia e di ricostruzione. Questo è il punto. Voi lo sapevate benissimo. Dietro le quinte se ne conveniva.
E allora perché, invece, avete messo in scena solo un vergognoso processo alla Protezione civile? Forse perché il problema delle case costruite male non può essere addossato in nessun modo a Berlusconi? Forse perché vi siete accorti che, anzi, il piano casa appena varato andava proprio nella direzione dell’auspicato rinnovamento edilizio? Forse perché il ritardo delle norme antisismiche non è colpa di un sottosegretario del vituperato centrodestra, ma di una cultura del Paese che riguarda tutti? Forse perché il primo a firmare quel rinvio è stato proprio Antonio Di Pietro, nume tutelare del furbetto anti-furbetti De Magistris? Dev’essere così, è chiaro. Ma il risultato è vergognoso. Noi speravamo di parlare dei problemi seri. Su questo giornale l’abbiamo fatto, fin dal primo giorno, senza nascondere nulla, con dati e cifre, denunce e accuse fondate su abusi e inadempienze nelle costruzioni. Voi invece avete preferito affidarvi alle beghe da cortile, avete ritirato fuori la madonna del radon, l’autodidatta Giuliani, avete mestato nel torbido raccolto sul fondo della disperazione con un unico scopo: mettere nel frullatore chi da cinque giorni lavora, rischiando la vita e senza risparmiare energia, per ridare speranza all’Abruzzo. Mi chiedo perché, caro onorevole Santoro.
Mi chiedo a che serva. Visto che all’inizio della trasmissione faceva nobilmente appello al Paese che vogliamo lasciare ai nostri figli, ecco, le chiedo se davvero lei vuole lasciare ai suoi figli un Paese così, in cui nemmeno di fronte a 290 morti si trova la forza di mettere da parte i biechi interessi della politica di giornata. Se davvero vuole lasciare ai suoi figli un Paese in cui si irridono i volontari, magari solo perché vestono una divisa (si capisce la divisa non fa chic come l’orecchino e il jeans strappato...). Se davvero vuole lasciare ai suoi figli un Paese in cui di fronte all’emergenza ci si continui a sentire uomini di parte prima che uomini. Avevamo avuto una speranza nei giorni scorsi. Avevamo visto un clima diverso. Avevamo trovato commenti per una volta sensati a destra e a sinistra, avevamo trovato persone capaci di capire che il dolore e la sofferenza, pensi un po’ Santoro, contano persino più dell’essere berlusconiani o antiberlusconiani. Avevamo sperato che di qui potesse nascere un’Italia più civile. Avevamo sperato. Poi sono arrivati Vauro, le vignette e la sua bottiglietta d’acqua. Che meschinità.

(Mario Giordano, Il Giornale, 11 aprile 2009)

giovedì 9 aprile 2009

Al Qaeda: grazie Allah per i morti in Abruzzo

Fanno il tifo per il terremoto e sono contenti per le disgrazie capitate agli italiani: "Finalmente hanno avuto anche loro giorni neri. Oh Allah, uccidili e falli vagabondare". Così scrivono sui forum jihadisti i seguaci di Al Qaeda. È questo uno dei tanti commenti apparsi negli ultimi due giorni in internet. Alcuni fanatici seguono, attraverso la tv e i numerosi siti di informazione arabi, il dramma della popolazione abruzzese colpita dal sisma e sembrano impegnati in una vera e propria gara a chi aggiorna più velocemente il bilancio delle vittime.
Uno dei forum in cui è possibile trovare messaggi sul tema è quello di al-Falluja. "Oh Allah, rendi stabili presso di loro il terremoto e le disgrazie - scrive Ashiq al-Irhab, nickname che in arabo vuol dire “Desideroso del terrorismo” - maledici l'Europa, Israele e gli Stati Uniti". Un'invocazione simile è stata postata poco dopo da un altro utente, che si fa chiamare Figlio della Palestina. Anche su un altro forum, al-Shura, si susseguono le notizie riprese dai siti arabi con il bilancio delle vittime del sisma in Abruzzo e i vari utenti, sotto ogni articolo, aggiungono una macabra preghiera: "Oh Allah, fai salire queste cifre, distruggi i nostri nemici e aiuta i musulmani".
Scrive sullo stesso forum un utente che si firma Nureddin al-Zanki: "La nostra arma è più forte del fucile, è l'arma delle invocazioni e più ne facciamo più aumenta il bilancio delle vittime.
È un'arma più forte di quelle possedute da al-Qaeda". Simili commenti appaiono anche in altri forum jihadisti, come quello degli Ansar e quello denominato dei Mujahidin. I loro utenti, tutti sostenitori del terrorismo islamico nel mondo arabo, esultano, come è capitato anche in passato con altre catastrofi naturali che hanno colpito l'Occidente. A loro giudizio si tratta di punizioni divine inflitte a quelli che definiscono "i nemici dell'Islam".

(Fonte: Libero News, 8 aprile 2009)

Il vaticanista Salvatore Izzo: “Mi dimetto dall’Unione Nazionale dei Cronisti Italiani in segno di protesta per il premio assegnato a Beppino Englaro”

«Caro Direttore, dopo più di vent'anni, ho dato le dimissioni dall'Unione Nazionale dei Cronisti Italiani, alla quale avevo aderito su invito di colleghi di valore come Ciro Pellecchia e Romano Bartoloni, sentendomi onorato di condividere con loro la qualifica di cronista. Ho preso questa decisione in seguito all'annuncio del presidente Guido Colomba di voler premiare con il "lingottino d'argento" il signor Beppino Englaro. Non credo che rientri nelle finalità dell'associazione dei cronisti una simile presa di posizione che offende i sentimenti di quanti - indipendentemente dalla loro fede religiosa - credono che la vita sia un bene indisponibile. Quanto invece alla disponibilità dell'Englaro a conversare con la stampa, mi sembra davvero paradossale che si ritenga di premiarlo per questo: con il "caso Eluana" abbiamo assistito ad una vera e propria campagna mediatica a favore dell'eutanasia, con festeggiamento finale a casa dell'avvocato Campeis mentre la povera ragazza era all'obitorio. Eutanasia eugenetica, oltre tutto, perché ad essere condannata è stata una persona gravemente invalida. Ad essere ferite da tutto questo sono tante famiglie, come la mia, dove invece si è assistito con amore persone in condizioni analoghe a quelle di Eluana. La stessa esperienza ha vissuto con grande dignità la famiglia di Nino Andreatta, alla quale sì andrebbe conferito un premio da noi giornalisti per la dignità con la quale ha affrontato questa dolorosissima e lunga prova, senza sottrarsi alle nostre richieste di notizie ma senza esagerazioni e nel rispetto di una corretta deontologia. Oggi, mentre ancora aspettiamo di conoscere i risultati degli esami tossicologici che potrebbero chiarire perché il decesso di Eluana sia sopraggiunto così rapidamente rispetto alle indicazioni degli stessi medici incaricati dal padre di eseguire quel protocollo di morte (che non si capisce perché sia stato considerato legale, per di più in una struttura non sanitaria), siamo davanti ad una distorsione assoluta della verità dei fatti, con derisione finale affidata a Giorgio Bocca, che in un articolo sull'Espresso ha scritto: "Il partito della vita, che dovrebbe rappresentare l’aspetto caritatevole del cristianesimo, è nei fatti composto soprattutto da intolleranti e faziosi. È lo stesso culto della vita a ogni costo che lascia perplessi i visitatori della Piccola Casa della Divina Provvidenza, la pia istituzione del Cottolengo, dove tengono in vita esseri mostruosi e deformi. Gli eccessi della carità fanno il paio con quelli dell’ideologia. I cultori della vita a ogni costo, in obbedienza a Dio, non si accorgono di volersi sostituire a Dio”. Salvo poche eccezioni, contro tali mostruose parole non ho visto grandi levate di scudi nella mia categoria. E adesso arriva addirittura un premio a Englaro. Sarebbe il caso per tutti noi giornalisti di interrogarci su quale sia veramente il nostro ruolo, cioè se raccontare quello che accade o invece cercare di renderlo accettabile. Io rispetto le opinioni di tutti, anche se per scrivere di temi così complessi servirebbe forse di saper distinguere tra concetti come eutanasia diretta e indiretta, tra terapia del dolore e sedazione terminale, e infine - mi dispiace per il Presidente della Camera, certamente incorso in un lapsus, riportato però senza nessun distinguo dai colleghi - tra teocrazia e Stato Etico, che è precisamente quello nel quale l'eutanasia eugenetica può essere praticata perché non vi è più riferimento al valore della persona ma solo a quello dello Stato. Salvatore Izzo, Giornalista-Vaticanista dell’AGI».

(Fonte: Petrus, 4 aprile 2009)

Troppe repressioni in terra di Cina. Il Papa abbandona la soft diplomacy

La lunga e filantropica lettera che Benedetto XVI scrisse oramai quasi due anni fa (giugno 2007) ai cattolici cinesi stava iniziando a sortire gli effetti sperati. Seppure non fosse una lettera prettamente politica (i destinatari, appunto, erano i cattolici del Paese), aveva indicato tra le pieghe dei suoi venti capitoli un cambiamento di rotta “politico” ben preciso. Il Papa, per la prima volta, chiedeva alla Chiesa Patriottica, l’unica ufficialmente riconosciuta (voluta e istituita) dal governo, di collaborare con quella sotterranea e, quindi, seppure con le dovute cautele, di assoggettarsi all’autorità della Santa Sede. Un compito impervio visto il controllo che sulla Chiesa Patriottica esercita il regime. Un compito in parte attuato dai moltissimi vescovi patriottici i quali, nonostante il continuo indottrinamento subito da Pechino intorno all’ingerenza vaticana negli affari cinesi, da mesi sono in sostanziale comunione con Roma e con la Chiesa sotterranea.
L’unità tra Chiesa sotterranea e Chiesa Patriottica cementatasi a seguito della lettera papale non è andata giù al governo. Il quale ha reagito con l’atteggiamento di sempre e, nei giorni scorsi, con l’arresto del vescovo Giulio Jia Zhuigo. Un arresto che ha scosso la Santa Sede costringendola a indire (nei giorni scorsi in Vaticano) una sessione straordinaria della Commissione speciale sulla Cina.La Commissione venne istituita da Benedetto XVI nel 2007. Prima dei giorni scorsi si era riunita una sola volta. Dal 30 marzo al primo aprile di quest’anno, ai lavori hanno partecipato vescovi cinesi (è stato reso noto l’elenco) e diversi capi dicastero della curia romana.
Il risultato è stato reso noto in un comunicato ufficiale della Santa Sede che, per la prima volta dall’uscita della lettera di Ratzinger, prende le distanze in modo deciso dall’operato di Pechino. Secondo la nota, infatti, l’arresto di Giulio Jia Zhuigo non rappresenta «un fatto isolato». «Purtroppo - si legge nel testo - anche altri ecclesiastici sono privati della libertà o sono sottoposti a indebite pressioni e limitazioni nelle loro attività pastorali».
La controffensiva vaticana è particolarmente significativa. Dice la nota che i lavori della Commissione si sono focalizzati sulla «formazione dei seminaristi e delle persone consacrate» e sulla «formazione permanente dei sacerdoti». Il messaggio indirizzato a Pechino è dunque chiaro: anche se il governo continua con le vessazioni contro i religiosi, il Vaticano insiste per offrire al Paese sacerdoti formati nel giusto modo, sacerdoti fedeli a Roma e che continuino il prezioso lavoro di evangelizzazione verso tutti i cinesi e di sostengo a tutti i cattolici residenti nel paese.
Spiega Bernardo Cervellera, direttore di Asianews, che «i circa 3 mila sacerdoti (ufficiali e sotterranei), gli oltre 1500 seminaristi (ufficiali e sotterranei), le oltre 5 mila suore e novizie (ufficiali e sotterranee) mancano spesso di formatori a causa delle persecuzioni passate e presenti». Hanno tutti «carenza di strumenti (pubblicazioni, contatti); soffrono di un dislivello grande fra sacerdoti anziani e giovani, mancando la generazione intermedia, corrispondente al periodo della Rivoluzione culturale (1966-1976), quando sono rimasti chiusi seminari, chiese e conventi. Più di tutto, hanno bisogno di aiuti per affrontare le nuove situazioni in cui vive la società: urbanesimo, consumismo, materialismo, migranti, ateismo scientista, ecc.».
Il Vaticano è a sostengo di questo piccolo “contingente religioso” che intende rivolgere le proprie attenzioni ed energie. Insieme, non mancherà di spingere questo contingente in avanti, verso un’azione missionaria che proprio nei posti del mondo dove la libertà religiosa è negata, come accade in Cina, vede sbocciare i suoi frutti migliori. Del resto, lo disse lo stesso Benedetto XVI nella lettera del 2007: «La Chiesa - scrisse il Papa - sempre e dovunque missionaria, è chiamata alla proclamazione e alla testimonianza del Vangelo. Anche la Chiesa in Cina deve sentire nel suo cuore l’ardore missionario del suo Fondatore e Maestro». Un programma che la Commissione dei giorni scorsi ha sostanzialmente confermato.

(Fonte: Il Riformista, 3 aprile 2009)

Legge 40: Le amnesie di Fini, che parla delle donne, ma dimentica le famiglie

L’accoglienza riservata dal presidente della Camera, Gianfranco Fini, alla sentenza della Corte Costituzionale che ha dichiarato incostituzionali due passaggi della legge 40 sulla fecondazione assistita, è destinata a suscitare qualche perplessità.
Non solo perché proviene da una figura istituzionale che, specialmente negli ultimi tempi, si è distinta per la difesa del ruolo del Parlamento: un ruolo che proprio la Consulta sembra ora voler mettere in discussione, intervenendo su una legge approvata da entrambe le Camere con una maggioranza trasversale, e quindi confermata dal fallimento di un referendum abrogativo che chiamava direttamente in causa la volontà popolare. Ma anche perché, motivando la sua soddisfazione, Fini ha parlato di una sentenza che rende giustizia alle donne.
È già di per sé significativo il fatto che Fini non parli di famiglie, ma di donne: come se la procreazione fosse una questione che riguarda esclusivamente le madri, a prescindere dall’altra metà della coppia, regolare o occasionale che sia. Una prospettiva che, anche dal punto di vista femminile, si fa fatica a definire giusta, nella misura in cui rovescia tutta la responsabilità della nuova vita sulla donna; proprio mentre, su altri versanti, continuano a levarsi voci in difesa di una condivisione sempre maggiore degli oneri familiari tra i due genitori, a partire dalla cura dei figli. Ma la terminologia utilizzata dal presidente della Camera non è casuale: riflette una posizione ormai largamente diffusa nel nostro paese, che assegna alla natalità il valore di un obiettivo assoluto, anche svincolata dalla maternità. Insomma, basta fare figli: senza necessariamente preoccuparsi di chi li alleverà, di chi li educherà, di chi li amerà. Non a caso, accanto alla procreazione a tutti i costi si prefiggono alle donne obiettivi altrettanto assoluti, come la produttività a tutti i costi: quella che impone alle madri lavoratrici, impegnate nella rincorsa di una carriera sempre più ambiziosa, di dedicare il minor tempo possibile ai loro bambini durante la vita professionale, delegandone l’accudimento via via ad asili nido, tate, scuole, corsi di inglese e di tennis.
Chi parla in nome e per conto delle donne, spesso attribuendo loro il proprio pensiero, le vorrebbe fertili e feconde a comando, anche se questo dovesse costare loro la salute; e poi, sempre a comando, puerpere già pronte a rientrare al lavoro, anche se questo dovesse privarle del prezioso contatto con quei figli tanto desiderati; e infine, ancora a comando, professioniste realizzate, anche se questo dovesse costare alla loro famiglia la perenne assenza da casa. Prima di decidere se questo sia o meno giustizia per le donne, dunque, occorrerebbe forse riflettere su quelle che Sorrentino chiamerebbe “le conseguenze dell’amore”: se non che sorge il sospetto che in tutta questa faccenda, l’amore c’entri ben poco.

(Fonte: Il Sussidiario, 4 aprile 2009)

Una sentenza destabilizzante

La sentenza della Corte Costituzionale, relativa alla Legge 40, a mio parere è molto grave. Per un semplicissimo motivo: perché è destabilizzante. Ancora una volta assistiamo ad un’invasione di campo che scippa non solo al Parlamento (il quale la legge l’ha fatta), ma anche all’intera Nazione (che ha boicottato il Referendum che intendeva abrogare quella legge) il proprio potere.
E’ una sentenza che fa il paio con quella dei giudici del caso Englaro. Solo che stavolta la legge c’è. Allora che si fa? La si mutila di alcuni punti qualificanti. E’ vero che i pilastri della legge non sono stati intaccati, ma è altrettanto vero che l’intervento della Consulta ha avuto la conseguenza di creare un impianto legislativo che ora è diventato contraddittorio. E che quindi presterà il fianco a conflitti d’ogni genere, ad abusi, ad interpretazioni “creative”.
Spieghiamoci meglio. Dopo l’intervento della Corte la legge 40 è cambiata pochissimo. Restano in piedi, come spiegava ieri Avvenire, i suoi principi fondamentali:
- la tutela degli interessi del concepito in posizione non subordinata rispetto a tutti gli altri soggetti coinvolti;
- il divieto di procreazione assistita a carico di donne sole o dopo la morte del partner;
- la proibizione di pratiche eterologhe;
- il divieto di qualsiasi sperimentazione sugli embrioni;
- il divieto di distruggere, clonare, selezionare a fini eugenetici, congelare e selezionare quanto al loro sesso gli embrioni;
- la proibizione di riduzione embronaria di gravidanze plurime:
Tutto ciò resta in vigore e vuol dire che: il concepito è un soggetto di diritti fin da quando è allo stadio embrionale; non esistono solo i diritti della coppia che lo vuole, né vengono prima di ogni altra cosa; con l’embrione la tecnoscienza non può permettersi abusi e sperimentazioni selvagge, ma deve agire nel pieno rispetto e con tutta l’accortezza possibile.
Non è una legge confessionale e religiosa. I cattolici non la considerano un bene, quanto piuttosto un male minore. Quindi ogni accusa di dogmatismo religioso appare infondata. E’ piuttosto una legge fatta e approvata da rappresentanti del popolo che hanno agito secondo la propria coscienza e con un senso sacro, laicamente sacro, della vita umana. E’ ovvio che molti di quei parlamentari si siano ispirati, e lo facciano tutt’oggi, ai principi della morale cristiana. Ma è lecito avere delle proprie convinzioni morali o bisogna essere tutti appiattiti sul pensiero unico radical-laicista?
Detto questo, capiamo cosa ha combinato la sentenza della Consulta. Ha giudicato incostituzionale il comma 3 dell’art. 14, accusandolo di non prevedere la subordinazione del trasferimento degli embrioni in utero a una rigorosa tutela della salute della donna; inoltre ha rimosso la conclusione del comma 2 del medesimo articolo, che impediva la formazione in vitro di più di tre embrioni e prevedeva il dovere del medico di procedere “ad un unico contemporaneo impianto”.
E qui scattano tutte le contraddizioni di questa strampalata e grave sentenza. Perché se, in teoria, un medico potrebbe avvalersi della nuova possibilità di creare degli embrioni soprannumerari (più dei tre originariamente previsti), resta però il divieto di crioconservarli o sopprimerli o procedere alla selezione eugenetica.
Ma allora cosa cambia? “Un medico che domani crea tre embrioni – si chiede Assuntina Morresi (consulente del Ministero al Welfare) - che farà, visto che non può sopprimere o congelare nessuno? Li dovrà trasferire tutti e tre, esattamente come prima”.
Già, ma intanto la legge è stata stravolta, e mi sento di condividere il disorientamento della ginecologa Eleonora Porcu, responsabile del Centro sterilità dell’ospedale Sant’Orsola di Bologna: “Se si produce un numero di embrioni superiori al necessario, si avranno di nuovo embrioni soprannumerari. Che destino avranno? E noi operatori come dobbiamo comportarci tra due ingiunzioni contraddittorie?”.
Ecco perché questa sentenza è una vera e propria porcata. Non si demolisce la legge (apparentemente), ma la si erode dall’interno. Si apre un varco, rimuovendo quei mattoni che si potevano rimuovere. Aspettiamoci ora una stagione di conflitti, con medici che producono più embrioni e tornano a sopprimere i soprannumerari, senza che lo Stato (lento, impacciato, povero di risorse) riesca a fare i dovuti controlli. Aspettiamoci nuove pratiche invasive sulle donne e un nuovo commercio di ovociti, “donati” da delle povere disgraziate (soprattutto dell’Est europeo), che per una manciata di euro si fanno riempire di ormoni.
E questa sarebbe, secondo Fini, una sentenza che “rende giustizia alle donne”!
C’è da augurarsi che la politica faccia presto la sua parte per eliminare ogni possibile ambiguità e operare una radicale limitazione dei danni causati da questa sentenza.

(Fonte: La Cittadella, 4 aprile 2009)

I “no” della Chiesa: un servizio di chi è «sentinella del popolo»

Riporto più che volentieri questa lettera indirizzata da un’amica “pensante” al Direttore di Avvenire.
“Il titolo dell’ultimo libro di Marco Politi «La Chiesa del no» mi fornisce lo spunto per una riflessione «a prescindere», appunto su quei no che sono costante bersaglio della stampa laicista, ma anche – non tutti – motivo di perplessità se non di dissenso per non pochi fedeli all’interno della Chiesa stessa: sono i no alla distruzione degli embrioni, all’eugenetica, all’aborto, alle nozze gay, all’eutanasia, eccetera: i no, insomma, alla «modernità», considerata un assoluto che non si può mettere in discussione in alcuno dei suoi dogmi senza essere relegati ipso facto nel ghetto degli «oscurantisti» additati alla pubblica derisione. Sono i no che la Chiesa dice sapendo di perdere consensi, e con ciò ponendosi su una dimensione «altra» rispetto alla dimensione politica, che dalla ricerca del consenso non può prescindere: memore, la Chiesa, del severissimo monito del suo Signore: «Guai quando tutti gli uomini diranno bene di voi. I loro padri, infatti, facevano così coi falsi profeti».
I denigratori della Chiesa di varia estrazione, quando trattano di questi temi, cantano tutti all’unisono: la polifonia non è il loro forte. In un’epoca di individualismo esasperato vorrebbero una «Chiesa del sì», attentissima ai desiderata di tutti. Mi vengono in mente al riguardo le profetiche attualissime pagine di Solovev sull’Anticristo, scritte nel 1900, anno della sua morte: un uomo, il suo Anticristo, attento a tutte le voci, e quindi, naturalmente ecologista, pacifista, ecumenista, animalista, idealista: l’uomo, insomma, di tutti i sì, l’uomo che per questo realizzerà finalmente la pace universale. Non come quel galileo, fin dalla culla additato come «segno di contraddizione», quel galileo ex carpentiere che crescendo ha osato vantare ascendenze divine (!) mentre divideva l’umanità in due parti: con lui o contro di lui, arrivando a dire, son parole sue: «Pensate che io sia venuto a portare la pace sopra la Terra? No, io vi dico, ma la divisione. D’ora innanzi in una casa di cinque persone si divideranno tre contro due e due contro tre: padre contro figlio e figlio contro padre, madre contro figlia e figlia contro madre...».
Per questo suo dividere tutti, persino un intero popolo, per quel suo parlare in modo politicamente scorrettissimo che feriva gli augusti orecchi dei maggiorenti, oltre che per quella pretesa di ascendenza divina, l’hanno fatto fuori, con lo scopo di metterlo a tacere per sempre. Ma l’Anticristo no! Chi vorrà mettere a tacere l’uomo di «tutti i sì», il Grande che realizzerà finalmente la pace universale? Se Cristo divide, viva l’Anticristo!
All’ombra del grande Solovev qualcosetta la «vedo» anch’io... Non riesco a capire il «tempo in cui», ma vedo con sufficiente chiarezza un’atmosfera di eccezionale frenetica attesa da un angolo all’altro della terra, un concitato passaparola universale, l’attesa di un evento annunciato da tutte le agenzie e le tv del mondo, e, finalmente, l’evento: un solennissimo pontificale mai prima visto, presieduto nientemeno che da sua santità l’Anticristo, trasmesso in mondovisione. Dopo di che, in un clima di insostenibile commozione, vedo i residui scettici crollare ormai convinti fra le braccia dei credenti, e tutte le chiese dell’orbe terraqueo riempirsi finalmente all’inverosimile, oltre ogni più rosea speranza: tutte le chiese della «Chiesa del sì», la chiesa, appunto, dell’Anticristo, direttore, aveva proprio ragione Amleto: essere o non essere... Chiesa del sì o Chiesa del no... questo è il problema.
Tornando a noi, se è vero che l’Anticristo non prenderà mai il posto di Pietro, è pur vero che la sua è la chiesa che il mondo vorrebbe e chiede (la chiede a Pietro!), e il perché la Chiesa di Cristo ripete i suoi no tutte le volte che l’occasione lo richieda, lo si può capire rileggendo i Profeti, quelli non falsi, ai quali Dio comanda di parlare, parlare anche se inascoltati, Profeti che Egli pone (vedi Ezechiele) come sentinelle del suo popolo – un popolo di «dura cervice» – ai quali chiederò conto rigorosissimo del loro avere o non aver parlato. Ebbene, in questo tempo di eclisse della coscienza, in cui il male viene chiamato bene e viceversa, Dio ha voluto come sentinella della sua Chiesa, Papa Benedetto XVI, profeta non falso. Al quale, mi consenta, direttore, di far pervenire, attraverso questo nostro giornale, sperando gli cada sotto gli occhi, almeno una parola delle molte che vorrei dirgli: grazie!” Vetulia Italia, Roma.

(Fonte: Avvenire, 3 aprile 2009)

giovedì 2 aprile 2009

Lo strano umanitarismo della Corte

Niente moratoria per la vita umana embrionale. Vedremo in base alle motivazioni come hanno ragionato, i giudici costituzionali che hanno stravolto ieri la legge sulla fecondazione artificiale o medicalmente assistita varata dal Parlamento italiano nel 2004 e confermata dal fallimento del referendum abrogativo voluto dal fronte laicista nel 2005 (meno di un quarto degli elettori si convinse a votare “sì” all’abrogazione della legge 40).
Per ora sappiamo ciò che hanno deciso. La cura dell’embrione umano, il divieto di produrlo in numero esorbitante, di crioconservare gli avanzi della produzione per poi lasciarli deperire o distruggerli a scopo di ricerca, non è in cima ai pensieri dei componenti la suprema corte. Del bilanciamento tra la salute di una donna e i diritti esistenziali della vita da lei concepita in collaborazione tecnico-spirituale con un uomo, l’alta magistratura che si occupa della conformità delle leggi alla Costituzione sembrerebbe infischiarsene. Il ginecologo Carlo Flamigni ha detto che giustizia è fatta. In effetti, posto che gli embrioni umani siano qualcuno e non qualcosa, il mondo specchiato dell’umanitarismo amorale, contrario alla pena di morte, ora consentirà che in nome del presunto benessere femminile al miliardo di aborti di questi trent’anni si aggiungano un numero molto alto di vite umane embrionali giustiziate. Si chiama giustizia. Si chiama progresso. E’ probabile inoltre che la sovrapproduzione di embrioni consenta di estendere anche al nostro paese e ai suoi laboratori la deriva eugenetica in atto nel mondo, e che la razza venga selezionata, tipizzata secondo i nostri desideri, con tutti gli scarti e le soppressioni necessarie a un corretto funzionamento dell’ingegneria biogenetica del mondo nuovo.
Qui la sfera privata e l’autodeterminazione non c’entrano. Qui è in gioco la determinazione del destino altrui, della vita evocata e poi negata mediante atti tecnici di fabbricazione amorale della vita umana, esponendo quella sgradita a pratiche di manipolazione e maltrattamento e liquidazione dipendenti dal giudizio onnipotente della coscienza umana libera e della tecnoscienza che amoralmente la forma. Il legislatore aveva stabilito, nell’articolo 14 e commi seguenti stravolto per illegittimità costituzionale dalla Corte, che non si possono produrre embrioni a piacimento, per poi abbandonarli al loro destino; bisogna mettere un limite da uno a tre, deciso dalla donna mediante il consenso informato, e poi il quantum di vita creato (sia uno sia due sia tre) va impiantato perché sia realizzato il suo scopo intrinseco, la nascita di una vita umana già concepita. Non sembra un pensiero così irrazionale. Sempre che si sia d’accordo nel bilanciare i diritti della persona che concepisce con quelli di una persona concepita.
Rocco Buttiglione ha fatto un’osservazione interessante. Ha detto che a forza di sentenze di conformità costituzionale che vanno contro i sentimenti di una parte non indifferente del popolo italiano e dei cittadini di fede cattolica in particolare, si arriverà a estraniare dalla Costituzione un pezzo del paese, inducendolo a credere che la Carta non tuteli il criterio della difesa della vita umana in generale, in particolare dalla manipolazione a scopo eugenetico. Purtroppo però è questa la verità effettuale della cosa. Le Costituzioni e le Dichiarazioni sono state scritte prima che la vita diventasse un oggetto manipolabile in laboratorio, prima che si potessero fabbricare i bambini, scartarli per selezione o tipizzarli in ragione dei nostri bisogni veri o presunti. All’epoca si potevano fare ed erano stati fatti (e moralmente censurati) esperimenti alla dottor Mengele o comunque ispirati a una visione cosale della vita, ma non seriali e facili, alla portata di ogni famiglia. Non è un caso se abbiamo tentato una battaglia, quella sulla moratoria per l’aborto, al cui centro c’è l’idea di inserire nelle carte dei diritti, dalla Dichiarazione Onu del ’48 alla Carta italiana dello stesso anno, il comma pro vita che recita “dal concepimento alla morte naturale”. Forse bisognerebbe ripartire da lì, invece di fare chiacchiere.

(Fonte: Il Foglio, 2 aprile 2009)

In margine a una vicenda scolastica novarese

I bambini fanno domande imbarazzanti. È naturale, sono bambini. Chiedere è il loro mestiere, si può dire. E infatti chiedono su tutto: sulla nonna che chissà dove è finita, o su chi ha fatto le montagne.
Una volta, uno dei miei figli mi chiese a che punto della Creazione, dopo stelle, mari e uomini, Dio avesse fatto la Ferrari. I nostri piccoli hanno la ragione allo stato naturale: curiosa e spalancata come una finestra che si sta aprendo sul reale. È giusto, è naturale, è bello che facciano domande. Se gli adulti si imbarazzano e non sanno come rispondere o come stare di fronte a tali domande significa che loro, invece, non sono adulti. Soprattutto se uno fa di professione il maestro o la maestra elementare. Questo è il succo, direbbe Manzoni, della faccenda che da Novara è stata molto amplificata su alcuni media, a seguito delle proteste dei genitori di una classe di elementari che non hanno gradito le risposte di una insegnante circa alcune curiosità sul sesso da parte dei suoi bambini.
E ne hanno chiesto la rimozione. Fa quasi sorridere la strana euforia con cui alcuni commentatori hanno ripreso la faccenda, come il simpatico Gramellini sulla Stampa.
Come se la maestra che spiega senza né remore né veli certe ‘pratiche’ a dei bambinetti fosse quasi una postuma campionessa della liberazione sessuale («forse esagerando», ammette la prima pagina della Stampa, che peraltro all’interno pubblica le foto scabrose e da pubblica gogna dell’ex potente piemontese Soria). O dall’altra parte, sconforta un po’ la constatazione su quelle pagine e altrove di chi se la cava dicendo: ‘ah ma tanto ormai il sesso variamente esibito e interpretato è onnipresente e i bambini vengono a contatto con tante cose e dunque tutto questo è inevitabile. ‘ Di inevitabile appare ormai solo l’impaccio, la mancanza assoluta di delicatezza nel trattare il tema. Di inevitabile purtroppo sembra solo che ci sia la perdita di delicatezza da parte degli adulti a trattare il tema del sesso. Una delicatezza che viene dalla forza. La forza dell’amore. Una delicatezza che dovrebbe guidare gli insegnanti per amore dei ragazzini loro affidati, che dovrebbe correggere la grossolanità di tanti pubblicitari – approvati peraltro da serissimi manager e da consigli di amministrazione –. Una delicatezza che dovrebbe far parte dell’amore che i genitori hanno verso i loro figli. Il sesso trattato senza la delicatezza che viene dal considerarlo una parte dell’amore si trasforma in una pratica, più o meno come una tecnica sportiva, una faccenda su cui si può parlare a vanvera, con la leggerezza acida che è il contrario della delicatezza. E questo capita anche tra genitori, ignari di essere ascoltati dai figli. Eppure, il sesso non è una pratica, ma un gesto d’amore. Un gesto in cui si mettono in moto gli strati profondi dell’offerta e della gioia. Dell’identità e della ricerca. Sta a vedere che ormai siamo rimasti noi cattolici a prender sul serio, con gioia e delicatezza, il sesso.
Banalizzare queste cose di fronte a dei bambini illustrandone le ‘tecniche’ come se si trattasse delle istruzioni per costruire una bicicletta è una mancanza suprema di delicatezza. Oltre che un segno di adulti ridotti pericolosamente a babbei.
Il che deve far pensare. Poiché, com’è noto, i babbei sono i maggiori alleati del pensiero totalitario. E solo un babbeo, appunto, non si accorge che dietro a questo gonfiare notiziole, a questo confondere le acque addirittura alla faccia dei bambini c’è un montare preciso di un totalitarismo di pensiero che fa a pezzi l’uomo, considerandolo di volta in volta macchina di congegni biologici, macchina di pulsioni sessuali, macchina di pezzi di ricambio, macchina fabbricabile a piacere.
Macchina, automa, a cui il totalitario non-pensiero, concede pure lo svago di qualche pratica sessuale. E se i bambini in fondo se lo ficcano in zucca fin da piccoli, per il non-pensiero totalitario, è meglio…

(Fonte: Avvenire, 1 aprile 2009)

Eutanasia: la Conferenza Episcopale tedesca favorevole alla “dolce morte”?

Non bastavano le numerose voci – non poi così infondate – sulla presunta “solitudine” di Papa Benedetto XVI. Ad evidenziare ancor di più le posizioni poco ortodosse di alcuni illustri prelati cattolici ci ha pensato recentemente il laicissimo ed agguerrito periodico “Micromega” che – in occasione del vivo dibattito in corso al Senato sulla “Dichiarazione Anticipata di Trattamento” (comunemente definita “testamento biologico”) – ha pubblicato sul suo sito ampi stralci del documento “Christliche Patientenverfügung” (Disposizioni sanitarie del paziente cristiano).
Il testo – tipico frutto di quel “dialogo” cattolico-protestante che ha assunto ormai i contorni del sincretismo interconfessionale – è stato sottoscritto, oltre che dal Presidente del Consiglio delle chiese evangeliche tedesche Kock, anche dal cardinale Lehmann, Presidente della Conferenza Episcopale tedesca.
Il documento, stilato per la prima volta nel 1999 e riveduto nel 2003, sigla l’ufficiale via libera dei vescovi tedeschi – o almeno del loro rappresentante – alla cosiddetta “eutanasia passiva”, ovvero a quel «dignitoso lasciar morire, nello specifico non proseguendo o non iniziando nemmeno un trattamento volto al prolungamento della vita». Senza dilungarsi eccessivamente nel merito, gli ampi stralci del documento tradotti da “Micromega” lasciano trasparire una tattica ormai diffusamente utilizzata da anni da parte di quei “cattolici adulti” che – preoccupati di piacere più al mondo che a Dio – scendono troppo spesso a compromessi su tematiche già definite dal Pontefice “valori non negoziabili”. Il metodo in questione consiste in quella subdola diluizione di piccole verità – atte solo ad ingraziarsi il consenso di qualche ingenuo – in un oceano di ambiguità o di vere menzogne. Esempio eclatante di questa vera e propria strategia disinformativa è l’inserimento nel succitato testo – subito dopo la condivisibile affermazione del principio di poter rifiutare trattamenti nocivi o controproducenti – dell’alimentazione artificiale tra le terapie suscettibili di tale rifiuto. Una posizione, quella del cardinale Lehmann, che avrebbe quindi legittimato ante litteram la morte di Eluana Englaro.
Vi è inoltre da aggiungere che il diritto alla nutrizione rappresenta uno dei pochissimi punti fermi del ddl in discussione al Senato – quello presentato dal senatore Calabrò – che, pur partendo da dichiarazioni di principio condivisibili, non convince affatto a causa della sua ambiguità un più che discreto numero di parlamentari cattolici capeggiati dal sottosegretario Mantovano e dalla senatrice Bianconi.

(Fonte: Corrispondenza Romana n. 1086, 2 aprile 2009)

Firenze: se a Beppino Englaro, perché no la cittadinanza onoraria anche a suor Rosangela?

Proprio nel giorno in cui il Comune di Firenze ha assegnato la cittadinanza onoraria a Beppino Englaro per come ha condotto la vicenda della figlia Eluana morta per disidratazione il 9 febbraio scorso, Carlo Casini, Presidente del Movimento per la Vita, ha chiesto di attribuire l’onorificenza a suor Rosangela, che ha accudito la ragazza per molti anni.
Martedì 30 marzo la Giunta che governa la città di Firenze ha assegnato la cittadinanza onoraria a Beppino Englaro.
La cerimonia è stata al centro di proteste e polemiche con l’opposizione che ha lasciato l’aula per protesta, sostenendo che l’onorificenza “non ha altra spiegazione se non forse quella di voler apportare con un atto simbolico il proprio irresponsabile contributo alla campagna di legittimazione dell’eutanasia”.
Il Presidente del Movimento per la Vita, che è fiorentino, è intervenuto nella vicenda chiedendo che “il Comune di Firenze attribuisca la cittadinanza onoraria a suor Rosangela che per anni è stata accanto a Eluana e che insieme alle sue consorelle aveva chiesto di poterla continuare ad assistere amorevolmente senza chiedere niente in cambio se non il silenzio”.
“Non ignoro il dolore che avvolge la vicenda di Eluana e non intendo condannare nessuno, - ha precisato Casini - ma un tenace accanimento giudiziario il cui esito è la morte di una persona cara, non può essere proposto come modello ai molti che assistono persone sofferenti, morenti o portatrici di handicap”.
La tragica fine di Eluana Englaro solleva ancora una infinità di domande: è stato un affare privato o una vicenda che riguarda tutti? E' stato il trionfo dell’autodeterminazione del paziente e del rifiuto dell’accanimento terapeutico? E i giudici: si sono limitati ad applicare la Costituzione e le leggi o hanno pronunciato una ingiusta condanna a morte?
Per trovare una risposta a queste e altre domande, Giacomo Rocchi, Giudice Penale presso il Tribunale di Firenze, ha scritto il libro “Il caso Englaro, le domande che bruciano” (Edizioni Studio Domenicano, 124 pagine, 9,50 Euro).
Secondo il giudice Rocchi, Eluana “non ha mai chiesto di essere uccisa, nemmeno quando si è rappresentata lo stato di incoscienza in cui avrebbe potuto cadere”.
La stessa Corte di Cassazione, nella sentenza dell’ottobre 2007, parla di “volontà presunta, non accertata ed attuale; volontà desunta anche se non esplicita, quindi volontà non accertata”.
Il libro di Rocchi solleva dubbi sulla istruttoria tenuta dalla Corte d'Appello di Milano svolta senza contraddittorio, senza che nessun difensore di Eluana potesse controesaminare i testimoni o indicare testi che riferissero circostanze diverse
Secondo il Giudice di Firenze “la Corte smentisce se stessa”, perchè nel 2006 aveva sostenuto che non si poteva “evincere una volontà sicura di Eluana contraria alle prosecuzione delle cure e dei trattamenti che attualmente la tengono in vita”.
Rocchi critica la Corte che “indica come fonte principale di conoscenza la testimonianza dello stesso tutore che chiede la morte dell’incapace” e che “inizia ad argomentare in modo confuso e inconcludente sul carattere indipendente, amante della vita e deciso della ragazza”.
L’autore del libro precisa che anche la testimonianza sulle parole dette da Eluana di fronte all’amico caduto in coma a seguito di un incidente - “era meglio che fosse morto piuttosto che rimanere immobile in un ospedale in balìa di altri attaccato ad un tubo, per cui era meglio morire” - non permettono affatto di affermare che la giovane voleva essere uccisa nel caso ciò fosse capitato a lei.
Eluana aveva pronunciato quelle frasi senza alcuna consapevolezza che sarebbero state utilizzate contro di lei in un procedimento giudiziario, la ragazza non sapeva che i medici che l’avrebbero curata avrebbero considerato quelle frasi come vincolanti e che quella frase sarebbe stata interpretata come una condanna a morte nei suoi confronti.“Giustamente – ha sottolineato Rocchi – è stato detto che, dopo la sentenza della Cassazione, dobbiamo stare tutti attenti a quello che diciamo, in qualsiasi occasione e parlando con qualsiasi persona”.In conclusione il giudice di Firenze sostiene che “non è stata Eluana, ma il padre a decidere la sua morte; e infatti la Corte d’Appello di Milano ritiene necessario e sufficiente accertare che la richiesta di interruzione del trattamento formulata dal padre in veste di tutore rifletta gli orientamenti di vita della figlia”.

(Fonte: Zenit, 1 aprile 2009)

Ma che c'entra lo stato etico?

Quello che sinceramente mi dà fastidio, molto, molto fastidio in tutta la vicenda del cosiddetto testamento biologico e della nuova legge approvata dal Senato, è questo ossessivo richiamo alla laicità dello Stato contro lo Stato etico. Gianfranco Fini, davanti alla platea del PDL, ha detto che “quando si impone per legge un precetto, si è più vicini a una posizione da Stato etico che da Stato laico”. Quel riferimento ad un precetto puzza tanto di sacrestia. E infatti da altre parti, dove si usano termini ben più espliciti di quelli di Fini, si parla addirittura di “legge confessionale” e perfino di “ritorno all’oscurantismo”. Insomma, sembra che qui si sia fatta una legge che piace alla Chiesa e questo non va proprio bene in uno Stato laico.
Quando sento ragionare in questo modo mi si accappona letteralmente la pelle. Si tratta di slogan ad effetto, che colpiscono la gente e che trovano la cassa di risonanza della maggior parte dei giornali italiani. Siamo notoriamente in un regime. Sono slogan, e nulla più, perché se vai a fare un ragionamento possibilmente sensato, scopri che dietro le frasi ad effetto di ragioni ve ne sono davvero poche.
A Fini hanno risposto bene sia l’on. Schifani (“La laicità non è omissione di responsabilità”) che l’on. Quagliarello (“Il vero Stato etico è quello in cui, con la scusa dell’assenza di una legge specifica, un tribunale si arroga il diritto di determinare la morte”). Mi trovo d’accordo con loro.
Il Parlamento è stato letteralmente trascinato a formulare un testo di legge dall’ennesima vicenda gestita ed orchestrata dai radicali, il caso Eluana. Un caso che riguarda una minima percentuale di italiani (nelle condizioni di quella donna ci saranno sì e no duemila persone in tutta Italia). Un caso limite, sul quale si è voluta costruire una campagna culturale a favore dell’eutanasia.
Perché è lì che tutto tende.
Vecchia tattica quella dei radicali: sbattere il caso pietoso in prima pagina per colpire al cuore gli italiani, per dare un bel cazzottone nello stomaco. Accadde con l’aborto. C’era la ragazza stuprata; la ragazza-madre abbandonata da tutti e impossibilitata a dare un avvenire al proprio figlio; la coppia povera… La legge si è fatta e l’aborto è dilagato, diventando una vera e propria pratica contraccettiva. Altro che casi pietosi e ragazzine! A parte le extracomunitarie, sono le donne italiane tra i 20 e i 30 anni, spesso benestanti e istruite, a ricorrere all’aborto. Lo dicono le statistiche.
Allora, qual è la tattica? Costruire una legge sul caso limite per poi applicarla in modo largo.
Ma torniamo alla legge sul fine vita. Perché sarebbe “confessionale”? Quale “precetto” divino starebbe difendendo? Fino ad oggi abbiamo salvato il tentato suicida; i medici si sono prodigati per riportare in vita gente caduta in uno stato di coma (e ci riescono, nella stragrande maggioranza dei casi); l’eutanasia è stata vietata, ai sensi degli art. 575, 579 e 580 del codice penale; si è evitato di ricorrere all’accanimento terapeutico, cioè ad interventi straordinari non proporzionati, se quegli interventi non mutavano sostanzialmente il quadro clinico del paziente.
Tutto questo si è fatto fino ad oggi.
Domando: vivevamo già in uno Stato “etico” e non ce ne siamo accorti?
In realtà l’accusa di creare uno Stato “etico” va rispedita al mittente, come ha fatto l’on. Quagliarello. E’ infatti Fini, sono i radicali, è il senatore Marino, è tutta questa gente che vuole una cosa molto semplice: sostituire una nuova etica a quella che fino ad oggi ha innervato le nostre leggi e le nostre consuetudini. Questi signori vogliono che passi un concetto del tutto nuovo, figlio di una visione laicista, relativistica e nichilistica: l’autodeterminazione del soggetto fino all’estrema volontà di essere lasciati liberi di morire. E’ una rivoluzione culturale ed etica, che lo Stato, secondo costoro, dovrebbe recepire, per essere veramente “laico”. La conclusione è loro, ma è un falso sillogismo. Lo Stato diventerebbe ostaggio di una nuova etica.
Faccio degli esempi: se uno, volendo suicidarsi, si butta da una finestra e sta per strada a dibattersi tra la vita e la morte, sulla base del criterio dell’autodeterminazione dovremmo lasciarlo lì a morire senza muovere un dito. E se uno volesse morire e si rivolgesse per questo ad una struttura ospedaliera, sulla base del principio di autodeterminazione la struttura dovrebbe accompagnarlo alla morte. E se una persona (che ha scritto una dichiarazione con la quale rifiuta ogni forma di alimentazione artificiale), in seguito ad un incidente stradale entra in coma reversibile, il medico dovrebbe incrociare le braccia, senza somministrare quelle cure che salverebbero il paziente. E chi incontrasse per strada un drogato agonizzante per overdose, dovrebbe lasciarlo morire, senza fare alcunché per lui.
In tutti questi casi sarebbe salvo il principio di autodeterminazione, ma intuiamo benissimo che qui si sta ribaltando ogni principio solidaristico che finora ha regolato la nostra società. Fino ad oggi abbiamo ragionato così: io non sono un’isola, faccio parte della società e quindi non posso pretendere che la mia libertà sia un assoluto. Perché mai dovremmo cambiare?
La nuova legge, per quello che ho capito, riconosce al singolo la libertà di esprimere chiaramente un parere sul proprio fine vita (e questo mette al sicuro il medico che in certi casi valuti anche la concreta possibilità di “staccare la spina”), ma dentro una ragionevolezza, in un confronto con il medico, al quale, in scienza e coscienza, e secondo il codice deontologico, spetta di valutare la situazione.
Certo, è una legge molto attenta e rigorosa, ma questo è necessario, perché frasi ambigue e sfumate sarebbero utilizzate dal magistrato “creativo” di turno per stravolgerne il contenuto.
Io la chiamerei, più che legge confessionale, legge Eluana, perché nasce con il preciso desiderio che la barbara eliminazione di quella povera donna e quella situazione assurda e paradossale, che ha visto la Magistratura sostituirsi al Parlamento, non si debbano più ripetere.
E qualcuno, a questo punto, mi spieghi cosa c’entrano le disquisizioni sullo Stato “etico”.

(Fonte: La Cittadella, 30 marzo 2009)