Ci sono molti modi per finire malamente una carriera politica. Il senatore a vita Giulio Andreotti (14 gennaio 1919) ha scelto ieri il peggiore con un’intervista alla Stampa sul caso Englaro. Il cui assunto, evidenziato anche nel titolo, era il seguente: «Un governante non può impicciarsi in una vicenda totalmente privata». Andreotti è un fine letterato. Si deve quindi presumere che sappia scegliere con accuratezza i verbi. Gli unici esempi che lo Zingarelli riporta per «impicciare» sono «i vestiti stretti impicciano i movimenti», «impicciare la strada, il passaggio», «impicciarsi degli affari altrui».
Eluana sta morendo e i tentativi di un governo eletto dal popolo per impedire questa tragedia vengono assimilati lessicalmente dal pupillo del Vaticano a una faccenda di pantaloni stretti, di passi carrai e di affaracci propri. Dev’essersi proprio capovolto il mondo. E non è finita. Andreotti s’impanca anche a statistico: «La possibilità teorica che Eluana risorga dalla sua tragica situazione è una su mezzo milione». Sta parlando dello 0,00019 per cento (col 9 periodico) di possibilità. Ma io ho visitato un reparto ospedaliero specializzato nell’accudimento degli stati vegetativi, il Centro Don Orione di Bergamo, dove questo evento ha riguardato 12 pazienti su 69, cioè è accaduto nel 17,4 per cento dei casi.
Lei, senatore, di quale pallottoliere dispone? Poi Andreotti s’improvvisa medico: «Capita pure che si risvegli chi ha l’elettroencefalogramma piatto, ma mi sembra effettivamente forzato interpretare la vicenda sotto questo aspetto, aggrappandosi a una possibilità che scientificamente resta solo sulla carta». Quand’è così, stamattina si precipiti in Senato e presenti una proposta di legge di un solo articolo per l’abolizione immediata dei trapianti, visto che il requisito indispensabile per l’accertamento della cosiddetta «morte cerebrale» e il conseguente prelievo di organi è appunto l’assenza di attività elettrica cerebrale nel «donatore». Una situazione senza alcuna possibilità di ritorno, così ha stabilito nel 1975 un governo del quale anche lei faceva parte. Ora invece ci assicura che chi ha l’elettroencefalogramma piatto si può risvegliare.
Che dirle? Ne prendiamo atto. Tralascio per carità cristiana gli altri passaggi della sua surreale chiacchierata, che mi è parsa, perdoni la franchezza, un vaniloquio per dare solidarietà al capo dello Stato («condivido appieno la condotta del presidente Napolitano»), torto al premier («Berlusconi doveva regolarsi diversamente») e lezione al Papa («se la Chiesa non fissa espressamente una norma nel proprio magistero, noi cattolici non siamo esposti né tenuti a conformarci»). Sappia però che ho ravvisato nelle sue parole una certa coerenza di comportamento.
Vede, senatore, anche l’aborto per molti aspetti è «una vicenda totalmente privata», nella quale lei, infatti, nel 1978 dimostrò da governante di non voler «impicciarsi». Ciò nonostante la legge 194 (che strano, anche allora era in ballo l’interruzione della vita) è l’unica al mondo che rechi in calce la firma di sei politici cristiani: lei, che era il presidente del Consiglio in carica; i ministri Tina Anselmi, Francesco Bonifacio, Tommaso Morlino e Filippo Maria Pandolfi; il capo dello Stato, Giovanni Leone. Due anni fa, durante un pubblico dibattito, le chiesi conto di quell’atto e le ricordai che quando nell’aprile 1990 re Baldovino si vide sottoporre la norma, da poco votata dal Parlamento di Bruxelles, che istituiva in Belgio l’aborto legale, pur di non firmarla chiese al governo d’essere sospeso per due giorni dalle proprie funzioni, mediante l’applicazione di una norma costituzionale che prevede l’impossibilità per il sovrano di regnare quando «sia matto, malato o prigioniero».
Per paura di venir frainteso, lei mi fece avere con largo anticipo una risposta scritta (se vuole le rimando per fax la minuta vergata di suo pugno): «Purtroppo non potei dimettermi perché eravamo sotto lo scacco delle Brigate rosse che avevano ucciso Moro. Sono avvilito per quella firma, ma non c’era scelta». Sbaglio o si trattava dello stesso amico di partito che dalla «prigione del popolo», prima di morire, scrisse nel suo memoriale: «Andreotti è rimasto indifferente, livido, assente, chiuso nel suo cupo disegno di gloria... Cosa significava davanti a tutto questo il dolore insanabile di una vecchia sposa, lo sfascio di una famiglia, che significava tutto questo per Andreotti una volta conquistato il Potere per fare il Male, come sempre ha fatto il Male nella sua vita? Tutto questo non significava niente». Magari l’hanno nominata senatore a vita perché è da una vita che non s’impiccia. O forse perché s’impiccia troppo, ma solo quando le conviene. In ogni caso, che tristezza.
(Fonte: Stefano Lorenzetto, Il Giornale n. 6 del 9 febbraio 2009
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